la Repubblica, 7 maggio 2023
L’evento messianico del Cavaliere stanco che riappare al popolo dei fedeli
Silvio Berlusconi riappare ai suoi fedeli e l’evento si fa subito volutamente messianico. Forza Italia, «la nostra religione laica», così dice il Cavaliere; gli azzurri, «i santi laici degli italiani», il racconto della fondazione del partito offerto ai discepoli come una parabola: la cacciata dei comunisti dal tempio.
Quasi una autocanonizzazione, una Trevignano liberale dove si cita Benedetto Croce anziché la Madonna, in compenso non si vedono grandi tracce né dell’uno né dell’altra.
C’è insieme qualcosa di angosciante e di commovente nello sforzo di Berlusconi di non saltare troppe consonanti, di non rendere troppo celentaniane le frequenti pause per riprendere fiato, di non ridurre neanche di un pollice il sorriso catodico a tutto schermo, sorriso alla Mandrake, inteso Gigi Proietti e non il mago, «l’Italia è il Paese che amo», prima si è autocitato, ricordando il videomessaggio agli elettori, e poi l’ha ridetto. Incredibile, in bocca a lui funziona ancora come un vecchio proverbio delle nonne, il contenuto è accessorio.
Berlusconi è tornato contro ogni pronostico alla convention della sua creatura politica ed è partito dalla genesi. Un umano, umanissimo memoriale per consegnare alla storia la sua personale versione della discesa in campo, molto edulcorata. Una storia italiana, come il libello formato Chi che spedì in tutte le cassette delle lettere prima delle elezioni del 2001. Un discorso tutto al passato dove però la parola futuro risuona troppe volte per considerarla solo una casualità oratoria, concepito per restituire un Berlusconi in purezza, con il suo immaginario anni Cinquanta di «donne che spolverano i mobili» mentre aspettano il ritorno dei maschi a casa, con la scena del passaggio in auto sotto la casa dell’infanzia, «la casa della felicità», proprio il giorno prima della discesa in campo, una sequenza mezzo Guido Gozzano e tutto Pupi Avati. Ma anche un Berlusconi diverso, forse involontariamente, o forse no, certi momenti cambiano la percezione di chiunque. Il corpo del capo, fortunata locuzione già titolo di un famoso libro di Marco Belpoliti, è ferito davvero come mai prima, altro che statuetta in faccia, altro che uveite. Ma pure la furia ideologica non può essere quella dei Novanta, prima parla dei comunisti come se Palmiro Togliatti avesse svoltato l’altroieri a Salerno e poi ringrazia anche loro, sì insomma gli eredi dei comunisti, quelli là, per aver partecipato al coro di auguri per la sua guarigione. C’è anche una risposta indiretta ai nuovi spifferi giudiziari, forse i peggiori di sempre. «Mia madre me lo disse: “Te ne faranno vedere ditutti i colori”». E così i dirigenti Mediaset avvertiti della discesa in campo: «Ti manderanno in galera».
Ma è l’unico possibile accenno alle ultime accuse, delle quali è probabile che il Cavaliere non sappia molto.
Su tutto traspare l’orgoglio di aver costruito la più grossa e resistente egemonia culturale del dopoguerra italiano. Spiega di aver vinto perché agli italiani ha offerto la narrazione vincente del Milan e il regalo della tv privata che permetteva alle famiglie «di passare le serate a casa con i nostri film e i nostri programmi». Perciò, anche quando ricorda gli intellettuali che lo affiancarono nella creazione di Forza Italia – l’onore della citazione spetta a don Gianni Baget Bozzo, Antonio Martino, Giuliano Urbani – nella testa di chi ascolta scorrono altri nomi: Mike Bongiorno e i quiz del giovedì, Corrado con Il pranzo è servito
(partecipò da concorrente un giovane Matteo Salvini che alla richiesta della professione da parte del conduttore si definì «nullafacente»), Raimondo Vianello («Per la prima volta in vita mia so per chi votare alle elezioni», disse Vianello in diretta pochi giorni prima del voto del 1994 e scoppiò un finimondo), Corrado Tedeschi e il suoDoppio slalom (Salvini partecipò da concorrente anche qui, Matteo Renzi invece, come è noto, andò aLa ruota della fortuna).
Quando Berlusconi saluta tutti con un «grande abbraccio», partono le musichette di Forza Italia, simili a quelle dei programmi con i pupazzi Five e Uan, «e Forza Italia, che siamo tantissimi...», e ai più anziani viene in mente la parodia alla Tv delle ragazze, su Raitre, quella con la ‘s’davanti al nome del partito, «le gocce da prendere...».
Tutto nel discorso del Cavaliere è meravigliosamente inattuale e irresistibile, compreso il passaggio anti-cinese, «se la Cina ci invadesse non potremmo fare nulla», ultimo capolavoro di autocontraddizione del Cavaliere, già presidente dei ricchi e presidente operaio, lo stesso che poche settimane fa concedeva al caro amico Vladimir Putin, fedele alleato di Pechino, di aver attaccato l’Ucraina solo per insediare «un governo di persone perbene». Chissà se al buon Silvio qualcuno ha raccontato che i comunisti, quelli veri, i pochi rimasti, sulla guerra la pensano quasi tutti come lui.