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 2023  maggio 07 Domenica calendario

Il libro Walter Veltroni e Matteo Zuppi

Io penso che il pacifismo debba cercare la pace e debba, al tempo stesso, difendere i diritti degli esseri umani a vivere la vita secondo le regole del diritto internazionale. Le due cose sono assolutamente legate. Se accettassimo il principio in base al quale il pacifismo prescinde dal diritto di un popolo, faremmo il contrario delle intenzioni che dichiariamo, cioè accetteremmo che una politica di potenza possa affermare se stessa in contrasto palese con ogni ragione e valore ideale di pace.
La difficoltà, la durezza, la drammaticità di questo momento è proprio questa: come evitare la guerra, che deve essere sempre l’obiettivo principale del genere umano, direi degli uomini e delle donne di buona volontà, e al tempo stesso evitare che accada, non oggi, ma domani, che il mondo finisca sotto il giogo di chi ha politiche imperialistiche, ha politiche di dominio, ha politiche autoritarie.
Questa è in fondo anche la grande questione che si pose durante la Seconda guerra mondiale. Non dimentichiamo che Hitler e Mussolini e regimi analoghi arrivarono al potere con il consenso, talvolta persino con il voto dei cittadini, e che il mondo occidentale si fece carico di aiutare chi, da questa parte del mondo, con le sue mani, aveva scelto l’inferno.
Americani, australiani, canadesi non hanno fatto finta di nulla, non hanno detto che era affare nostro. E sono venuti a liberarci. Le croci bianche del cimitero di guerra di Anzio testimoniano proprio il sacrificio di migliaia e migliaia di ragazzi che anziché scegliere di vivere la propria vita, sono venuti qui per restituirci la nostra.
Tornando a quel che avviene in Ucraina, stiamo vivendo un momento molto drammatico in cui il mondo può riscivolare verso il conflitto nucleare, ed è eloquente il fatto che a minacciarlo sia lo stesso Putin: questa minaccia, credo, descrive molto bene chi sia l’interlocutore che abbiamo di fronte, l’interlocutore con cui in molti vorrebbero negoziare la pace.
Diffido delle posizioni belliciste di chi sostiene che solo con le armi possiamo porre fine alla guerra, ma allo stesso tempo diffido, e forse in maniera ancor più profonda, di chi invece sostiene, nei fatti, di abbandonare gli ucraini al loro destino. È disumano anteporre i nostri presunti interessi economici alla vita di milioni di persone aggredite la cui sorte, se non facciamo niente, sarà quella di essere trasformati in sudditi di un potere autoritario.
Tra queste due ipotesi, tra queste due soluzioni possibili, c’è quella difficile – ma mi sembra che sia anche l’unica praticabile – di continuare con il sostegno all’Ucraina e, al tempo stesso, di attivare tutte le possibili risorse di pace, coinvolgendo i cosiddetti «Paesi non allineati» e rafforzando l’azione che la Chiesa cattolica e papa Francesco possono svolgere in questo senso. In questo momento, però, la priorità è porre fine al massacro degli ucraini e il raggiungimento di questo obiettivo comporta che si immagini, qui e ora, un impianto negoziale che consenta una via d’uscita anche a chi ha scatenato questo inferno.
Questo si potrà determinare, però, solo se l’isolamento politico, e vorrei dire persino valoriale, sarà assoluto, senza ambiguità, senza confusione dei ruoli.
Quando si dice che Zelensky è come Putin, si dice una cosa che aiuta la guerra, non aiuta la pace; quando si mettono sullo stesso piano gli aggrediti e gli aggressori, si fa la stessa cosa. Ripeto, solo l’isolamento politico e il contrasto inequivocabile nei confronti di chi pratica la violenza possono consentire una via negoziale, altrimenti gli anni Trenta del Novecento sono già dietro l’angolo. Per tutti.
ZUPPI.
Bisognerebbe liberare il pacifismo da ciò che spesso gli viene attribuito, e cioè un elemento di ingenuità, di velleitarismo, di atteggiamento da anime belle. Negli operatori di pace, negli artigiani di pace, c’è invece molta consapevolezza, c’è il desiderio di contare e non rassegnarsi, di correre per questo dei rischi.
Non sono spettatori indignati di un massacro appiattito a rappresentazione mediatica e digitale, in cui quelle vite massacrate sono trasformate in immagini pruriginose fruite persino con un certo gusto macabro. No, sono persone in cui vive la consapevolezza profonda e radicata che le vittime della guerra siamo noi, sono i nostri fratelli, i nostri figli, i nostri genitori.
A questo proposito, racconto una cosa che mi ha tanto colpito.
Nell’aprile del 2022, a quasi novantasette anni, è morta Cornelia Paselli, una sopravvissuta agli eccidi nazifascisti di Monte Sole, a Marzabotto, avvenuti tra il 29 settembre e il 5 ottobre del 1944. Cornelia raccontò una cosa umanissima e drammatica. Durante la strage morirono tutti, e la madre di Cornelia, ferita, vedendo che accanto a lei c’era il corpo di una donna che la morte aveva riverso in una posizione umiliante, chiese alla figlia di correre e di coprire quella donna. Questa è la manifestazione della dignità, dell’umanità che riesce a farsi largo sempre, anche dove scompare ogni forma di umanità. Dobbiamo ricordarcelo, non siamo mai spettatori. E chi opera per la pace, chi cerca la pace, chi non si accontenta, non è uno spettatore, ma un operatore e un architetto che sa che ogni suo gesto conta e può fare la differenza. Partiamo da questa forza di dignità ed è questa forza che «avvia processi». Gandhi, con la sua nonviolenza, riuscì a spezzare le catene del colonialismo. Nella nonviolenza c’è appunto una forza, un’idea di persuasione, che vive in tanti architetti di pace, cioè in tante persone che si sono poi ritrovate, per passione, a volte anche per casualità, a gestire le cose pubbliche.
Oggi, dobbiamo imparare, esattamente come abbiamo fatto per il Covid, che anche la guerra è una pandemia, che non esistono guerre locali, ma che ogni guerra è un focolaio difficile da circoscrivere, perché ogni guerra è sempre una guerra mondiale.
Ogni guerra ha un meccanismo di riproduzione terribile che sfugge al controllo e trovo incredibile che anche di fronte a questa consapevolezza abbiamo non solo indebolito tutti gli organismi internazionali ma abbiamo accettato che fossero indeboliti. Lo abbiamo fatto con l’Onu. E poi abbiamo voluto che fosse la Nato a fare politica. Io non ho niente contro la Nato, figuriamoci, è sacrosanta, ma la Nato è uno strumento di difesa, ha un meccanismo basato su una certa automaticità; e se le decisioni scattano in nome di una procedura per motivi militari, la politica e la diplomazia devono essere forti, non deboli.
Nei decenni scorsi, abbiamo persino pensato di esportare la democrazia con la forza. Lo dico più che altro perché, vedendone le conseguenze, dobbiamo renderci conto della nostra debolezza e di come aver voluto dispensare diritti – o addirittura brandirli per stravolgerli – li abbia depotenziati togliendo a quell’ideale ogni credibilità.
Detto questo, ovviamente, chiedere la pace non significa confondere le responsabilità, dimenticare la storia. Non vuol dire dare ragione a Putin. Chiedere la pace è invece, per esempio, dare forza alle idee nonviolente di don Primo Mazzolari, al suo Tu non uccidere, un libro importantissimo per la Chiesa cattolica, che lui pubblicò nel 1955 e che in un certo senso preparò la Pacem in terris, l’ultima enciclica di Giovanni XXIII, nell’aprile del 1963.
Per lui, che fu cappellano militare, il cristiano è un uomo di pace, non un uomo in pace, non rinuncia a resistere, sceglie un altro modo di resistere: la non violenza, che è un rifiuto attivo del male, non un’accettazione passiva. Il nonviolento, nel suo rifiuto a difendersi, è sempre un coraggioso.
La nonviolenza è un atto di fiducia nell’uomo e di fede in Dio.