il Giornale, 7 maggio 2023
Intervista a Emmanuel Carrère
Emmanuel Carrère, che ieri a Porto Cervo ha ricevuto il Premio Internazionale Costa Smeralda 2023, è considerato uno dei grandi scrittori dell’oggi. Eppure, 65 anni, parigino, amato in Italia quanto e forse più che in Francia, un autore che si muove tra il giornalismo e il cinema (al quale più che i film piacciono i documentari, guarda caso...), ha scritto libri di diversa natura, raramente catalogabili con la sola parola «romanzo». Il più recente dei quali, V13, uscito da poco anche in Italia, da Adelphi, è come da sottotitolo una «Cronaca giudiziaria». Raccoglie gli articoli che tra il 2021 e il 2022 pubblicò su alcuni quotidiani europei in cui raccontava, con scrupolo da reporter e scrittura alla Carrère, le udienze del processo sugli attentati terroristici jihadisti avvenuti a Parigi nel novembre 2015 – un venerdì 13 (V13) – al Bataclan, allo Stade de France e in diversi bistrot. Una strage che causò 130 morti e 350 feriti. Quando un evento o un personaggio cattura così tanto l’Emmanuel Carrère scrittore da decidere di costruirci attorno una storia? «Ecco: è la grande questione del soggetto di un libro. Ci sono scrittori che amo capaci di scrivere su qualsiasi cosa. Io no! Mi serve un soggetto, un nocciolo duro da cui partire, e devo capire che tocca a me, proprio a me, e solo a me, raccontarlo. In certi momenti succede che individuo un argomento e, in modo forse un po’ pretenzioso, dico: Ecco, questo è giusto per me, anzi solo per me!. È quello che è scattato davanti al processo per i fatti del Bataclan...». Quegli attentati risalgono al 2015. Lei crede che dopo otto anni le cose siano cambiate? O potrebbe esserci un altro Bataclan? «Sarebbe un’illusione pensare che non possa succedere ancora. Gli studiosi dicono che lo jihadismo, come tutti i terrorismi, ha dei cicli: ci sono periodi con delle esplosioni, poi periodi di calma; ma è sbagliato pensare che non possa ricominciare. Ora è finita una certa fase, quella del Califfato, ma chi ci dice che non potrebbe essercene un’altra? E poi, attenzione: dico che simmetricamente esiste il pericolo di attentati da parte dei suprematisti bianchi». Lei ha seguito tutto il processo, ha provato a entrare nei meccanismi mentali degli jihadisti. La domanda è: dove comincia la follia quando c’è di mezzo Dio? Cosa ha in testa quella gente? «Nulla. Sono di una ignoranza religiosa radicale. Si crede che nella loro testa si annidi un grande mistero. In realtà non hanno niente. Sono ignorantissimi. È solo fanatismo. Più che il dato religioso, quello che interessa loro è il discorso politico e quello di appartenenza. Almeno, questo è ciò che è emerso dal processo». Una delle figure che spiccano nel libro è Nadia, madre di un delle vittime... «Una personalità straordinaria. Tutte le testimonianze del processo avevano una loro intensità, ma la sua è stata particolare. Non solo perché parlava della morte di sua figlia, ma perché lei è una donna speciale. È egiziana, parla arabo e conosce bene il mondo arabo. Capiva cose che ad altri sfuggivano. Ecco perché è unica». La Francia di recente ha accusato il governo italiano di non sapere gestire l’emergenza immigrazione, e ciò ha creato una frattura fra i due Paesi... «Che spero si possa ricomporre al più presto. Ma io non sono un giornalista da editoriale, che offre analisi o riflessioni. Non sono uno che propone soluzioni ai problemi, io li racconto. Entro nei fatti di cronaca da una porta laterale, cioè i miei reportage. Infatti ho deciso che a giugno salirò su una nave di Medici senza frontiere: dopo sarò in grado di farmi un’idea concreta del problema dell’immigrazione». L’altro grande fronte, oggi, è la guerra: Lei con altri intellettuali ha firmato un appello per la liberazione di Alexey Navalny, l’oppositore di Vladimir Putin, detenuto in carcere in Russia dal 2021. «Ho un’ammirazione totale per Alexey Navalny. Ha mostrato un coraggio straordinario: dopo essere stato avvelenato ha deciso di tornare nel suo Paese sapendo che sarebbe stato arrestato, rischiando la vita». Navalny può essere un altro Limonov, per Lei? Il soggetto di un libro? «Perché no? È come Limonov: una persona fuori dall’ordinario. Ma rieccoci alla questione di prima: cosa posso farmene io di un personaggio del genere? Voglio dire: cosa posso farci io, proprio io, e non un altro scrittore? Per Limonov avevo meno ammirazione di quanta ne abbia oggi per Alexey Navalny, ma avevo sentito che io ero la persona giusta per raccontarlo. La gente mi diceva: Vuoi scrivere di questo piccolo fascista russo, ma sei pazzo?. Ma l’ho fatto, perché capivo che potevo tirarne fuori qualcosa di buono. Faccio un altro esempio: Giuliano da Empoli ha scritto Il mago del Cremlino, un libro che in Francia ha avuto un grandissimo successo. L’autore ha preso un personaggio reale, Vladislav Sourkov, che è stato un influentissimo conigliere di Vladimir Putin, ha capito che soltanto lui poteva scrivere quel libro, e attraverso Sourkov, il mago, ha raccontato in forma di romanzo, da un punto di vista laterale, la figura di Putin e l’essenza del Potere. Lo ha fatto usando la fiction, ma in modo molto interessante. Mi è piaciuto così tanto che infatti ho deciso di scrivere la sceneggiatura del film che sarà tratto da Il mago del Cremlino». Perché tutte le grandi opere letterarie – e spesso anche le sue, da L’Avversario a V13 – arrivano da personaggi o eventi malvagi? Solo le vite segnate dalla sofferenza o dalla cattiveria possono generale la Bellezza? «Non credo che l’argomento dei miei libri sia l’effetto di una particolare fascinazione morbosa che io ho per il Male. Ma sono sicuro che per restituire una visione ricca e complessa dell’esistenza umana bisogna per forza passare dalla sofferenza e dall’infelicità». Come è arrivato alla scrittura? «Ovviamente dalla lettura. Ero un ragazzino timido, con gli occhiali, che leggeva tantissimo. Ed è abbastanza naturale che se leggi tanto, prima o poi ti venga la voglia di imitare gli scrittori che ammiri. Nel mio caso erano gli autori di storie horror e fantastiche. E così molto presto mi sono messo a scrivere anch’io...». E dopo, come è arrivato alla forma dell’auto-fiction per affrontare e raccontare la realtà? «Ci sono arrivato scrivendo: quando poco prima del 2000 mi sono occupato del caso di Jean-Claude Roman, che nel 1993 uccise la moglie, i figli e i genitori e poi tentò di suicidarsi, e che poi diede vita al mio libro L’Avversario – ecco una vera figurazione del Male – mi sono accorto che il racconto in prima persona che coinvolgeva me stesso s’imponeva sopra ogni altra forma di narrazione. E da questo territorio dopo venticinque anni non mi sono ancora mosso. Sto bene qui». Di cosa vorrebbe scrivere ora? «Il mondo oggi ci offre argomenti enormi. I disastri ecologi, o l’Intelligenza Artificiale, per citarne due. Mi piacerebbe, certo, occuparmene come scrittore. Di più: sento che dovrei occuparmene. Leggo, mi informo, rifletto... Ma mi sento disarmato. Lo dico senza ironia: di fronte alle grandi cose del mondo preferirei scrivere qualcosa di più piccolo, sarebbe meglio che scrivessi ad esempio la storia di mio padre». Lei ha percorso altre strade dal punto di vista della narrazione, come l’auto-fiction: ma crede che la strada del romanzo classico sia morta? «Ah, no: non penso assolutamente che il romanzo tradizionale sia morto! Io continuo a leggerli, eccome. Soltanto è che io non li scrivo. Io ho scelto altre forme. Michel Houellebecq ad esempio è un vero romanziere ottocentesco: nei suoi libri la visione del mondo è contemporanea, la forma è quella del romanzo classico. E in fondo, anche se io personalmente non scrivo fiction, la forma di scrittura che ho scelto è molto romanzesca».