Tuttolibri, 6 maggio 2023
Su "Qualcosa resta" di Alessandro Mari (Feltrinelli)
Aridosa è un vecchio borgo, al centro del triangolo industriale. S’aggrappa a una collina di sabbia e calcare che restituisce poco senza la fatica degli uomini. Alessandro Mari, che la pone come cornice geografica del suo nuovo romanzo, Qualcosa resta, cita addirittura una pagina di Wikipedia per avvalorarne la realtà. Incuriosito sono andato a verificare su internet. Anche perché si troverebbe vicino alla Valsassina (certificata letterariamente dai Promessi Sposi). Non ho trovato traccia. Aridosa, insomma, non esiste. È inesistente come Macondo. E come la città di Márquez pulsa però di vite, destini, volti. Condivide la stessa magica irrealtà. E chissà che tra le due non intercorra un legame più che inconscio, visto che uno dei protagonisti, Pedro, è colombiano come Gabo.
Dato che i lignaggi e le eponimie son materia fervida per lo storytelling, e Mari è un fantasiosissimo divagatore, conosciamo persino il personaggio che ha fatto risorgere Aridosa dalla spopolamento rurale, così tipico della storia italiana novecentesca. Fu un’eroina singolare, discendente da una guasta famiglia di contadini, chiamata da tutti la «professora», spirito libero e visionario, non a caso innamorata di Turati e Anna Kuliscioff (al punto da festeggiare gli anniversari dei loro decessi). Si trasferì con venti compagni d’avventura nel borgo, soprattutto donne pensionate, con l’idea di mettere in comune le risorse, la vecchiaia, e la libertà di andarsene all’altro mondo in santa pace quando e come pareva a loro, facendosi beffe del destino e degli accanimenti terapeutici. All’inizio si portarono dietro qualche badante, qualche tuttofare, poi seguirono amici, parenti, agricoltori, artigiani, persino un musicista per mettere buonumore. A poco a poco Aridosa tornò viva. Oggi vi sono pizzerie, uffici comunali, immigrati maghrebini, strade, appartamenti. Milleventidue anime, quasi cinquecento animali, e una clinica veterinaria perché una protagonista, Ida, l’aveva inaugurata per prendersi cura delle bestie e sopprimerle con pietosa eutanasia nel momento in cui si rendeva conto che i loro padroni volevano loro bene sul serio. Altrimenti le curava e le dava in adozione, dato che la «puntura letale» è un dono d’amore.
La povera Ida, tanto generosa quanto obesa, però muore. Muore subito. Nelle prime pagine del romanzo perché Qualcosa resta è uno strepitoso romanzo sulla morte. Su tutto ciò che avviene in quel momento tragico che spalanca spesso un vuoto nei cari che sopravvivono. E che dovrebbe invece essere - come tanti sapienti ci hanno insegnato da Epicuro ad Heidegger - il momento centrale della nostra vita. Ciò che le dà senso, termine e dimensione autenticamente umana Altrimenti saremmo eterni e muti come pietre. Non immaginate però qualcosa di funereo. Qualcosa resta strappa dalla tentazione del dolore e trascina con scrittura baldanzosa, strafottente, umoristica in una vicenda dove accadono più cose nei margini che non nella cosiddetta trama, più allegria sul caro estinto che dolore nel lutto.
L’io narrante è il fratello di Ida. Si chiama Adelio. Di mestiere fa l’oste, parla in prima persona, e si occupa di tenere insieme la storia, come se la raccontasse agli avventori, portando in primo piano ora l’uno ora l’altro gli abitanti di Aridosa. Nella concitazione del pronto soccorso dove la sorella agonizza, incontra Pedro, il suo fidanzato. È disperato, pieno di sensi di colpa, convinto di aver spaccato il cuore alla ragazza perché, come accade a qualunque amore, la foga dei sensi si era mutata in sobria fratellanza. Naturalmente non basta quella castità a provocare infarti. Il cuore si era spezzato per colpa di un problema al miocardio.
Prima s’accapigliano i due maschi. Poi insieme elaborano il lutto. E il romanzo, divagando per tante storie di vite, prova a raccontare cos’è la morte. Al di là di quello scandalo che tanti vogliono considerare tale con la mente obnubilata dal dolore. È un fatto biologico di carni tessuti organi che si guastano. È una seccatura burocratica di carte da riempire. Può essere cremazione, e le pagine che la descrivono sono di bruciante bellezza (Pedro tra l’altro lavora al crematorio). È una casa vuota che sopravvive al morto con tutte le cose quotidiane ad esse connesse. E soprattutto, come annuncia il titolo del romanzo, qualcosa che resta e sopravvive al nulla dell’eternità. Per lo meno finché c’è un essere umano che coltiva la memoria. In questo caso sono i due maschi sopravvissuti, che cominciano a cercare ricordi, testimonianze. Addirittura, odori, perché (ed è una trovata del romanzo) le nostre belle azioni lasciano una traccia olfattiva su codesto pianeta. Una scia chimica di bontà e grazia, che Lobo, il cane di Pedro è in grado di fiutare, trascinando i due padroni a trovare sollievo. Invece del funerale è meglio una festa. Invece del dolore che toglie il fiato, si fa spazio la forza della vita che va avanti e se ne frega dei minuscoli drammi personali.
Pedro, tuttavia, non si ferma alla memoria della sua Ida. Convinto che il cane Lobo sappia fiutare il buono delle persone, comincia a cercare altre tracce in giro per il mondo. Perché è assurdo che noi ricordiamo il bello delle persone solo quando sono morte. E non già quando esse vivono. Impoverito, spiritato, ramingo, decide di dedicarsi a questa missione. Come un profeta pazzoide s’avventura per asfalti romeni o lande spagnole, a cercare qui piccoli terremoti di inconsapevole bontà che ognuno di noi provoca nel mondo. Di Ida non resta traccia in questa terza parte del romanzo. Persiste invece la convinzione che la morte sia una storia che venga scritta a prescindere dagli esseri umani. La sola cosa che si può fare, e questo ad Aridosa è possibile - perciò è luogo tanto particolare (e inesistente) - è rispettare il desiderio di morire quando arrancare avanti è insopportabile. Mari racconta questo. Con apotropaica levità. In un fecondo filone letterario che si snoda tra Seneca, Calvino o Manganelli. E merita rispetto, non solo letterario. Perché nel nostro paese reale, la morte continua ad essere un cupissimo tabù, del sentimento e delle leggi.