Tuttolibri, 6 maggio 2023
Intervista ad André Aciman - su "Il bacio di Swann. Ritratti d’autore" (Guanda)
«Se ripenso ai miei ultimi mesi ad Alessandria, in realtà non è Alessandria a risvegliare la mia nostalgia, quanto piuttosto la possibilità di rivivere quel momento in cui, adolescente intrappolato in Egitto, sognavo un’altra vita al di là del Mediterraneo ed ero convinto che si chiamasse Francia». Un momento sospeso, in cui tutto può ancora accadere: è questo tempo ipotetico, non appartenente alle categorie di passato, presente e futuro ad affascinare André Aciman. Con Il bacio di Swann, appena uscito per Guanda con la traduzione di Valeria Bastia, l’autore di Chiamami col tuo nome (pp. 272, € 13) propone un’opera ibrida, tra memoir e saggio. Difficile, se non impossibile, è infatti scorporare la dimensione soggettiva e, talvolta, addirittura intima, dall’argomentazione letteraria, filosofica e artistica. Da un lato troviamo il suo passato in Egitto, il trasferimento in Francia, gli anni vissuti a Roma, la nuova vita a New York; dall’altro, tantissimi spostamenti affrontati sempre con lo spirito di un viaggiatore che porta con sé fame di novità, ma anche di cultura. È con questo sguardo personalissimo che lui osserva, descrive e narra quanto incontra. Lo testimonia il sottotitolo: «Ritratti d’autore», artisti, letterati, musicisti, registi e psicoanalisti che hanno influenzato il suo pensiero e la sua sensibilità. Sebald, Kavafis, Proust, Pessoa sono solo alcuni dei tanti nomi che, con le loro opere letterarie, hanno sperimentato «quanto potrebbe ancora verificarsi o forse no». Hanno offerto occasione per riflettere, emozionarsi, spingersi a guardare una città in cui si passa con occhi diversi da quelli di un turista: un lettore di Dostoevskij, d’altra parte, non potrebbe mai attraversare San Pietroburgo con semplice curiosità, perché andrà sempre a ricercare proiezioni di quanto ha trovato tra le pagine.
Se «l’arte è il nostro modo di litigare con il tempo», ecco che Aciman ospita riflessioni su statue e quadri (ad esempio, sui lampioni a gas di John Sloan), si misura con Beethoven, mostra come alcune note pellicole di Rohmer, negli anni, si siano intrecciate a momenti particolari della propria vita sentimentale. La trattazione non è mai avulsa dall’esperienza: al contrario, Aciman interagisce con le opere di cui parla, confermando che «il modo e il luogo in cui veniamo a contatto con un’opera d’arte, un libro, un’aria, un’idea non sono mai irrilevanti». Mostra nei confronti del lettore abbastanza fiducia da condividere momenti privati, dubbi, ripensamenti, ricordi delicati e riflessioni di ordine letterario, estetico, filosofico, artistico ed esistenziale. Rimpianti e riletture alla luce dell’esperienza portano a ripensare prima all’adolescente e poi al giovane André Aciman, ai suoi desideri d’amore, alle letture che lo hanno accompagnato in giro per il mondo e nel suo percorso di crescita.
La dimensione dell’ipotetico invade non solo le opere e i pensieri, ma anche le parole: in un breve ma estremamente efficace capitolo dedicato all’avverbio «quasi», paradigmatico dell’opera, André Aciman dimostra la «refrattarietà dello scrittore nei confronti del qui e ora», a vantaggio di ciò che potrebbe avvenire grazie all’immaginazione e al pensiero. Ed è qui che il lettore, mentre percorre le oltre duecento pagine di Il bacio di Swann, si sente libero. Di ritrovarsi nelle parole di Aciman, di confrontarsi con lui in un dibattito silenzioso, di lasciarsi incuriosire dall’inesausta passione nell’interrogarsi su ciò che potrebbe accadere e ciò che potrebbe essere accaduto.
Nel “Bacio di Swann” i capitoli sono legati da una concezione del tempo soggettiva: passato, presente, futuro e “l’ipotetico”, ciò che potrebbe (o sarebbe potuto) succedere. Cosa la affascina di questa dimensione?
«La metà della nostra vita trascorre tra le memorie di ciò che è effettivamente successo e la memoria delle cose che non sono successe, ma che abbiamo covato in noi e che sono rimaste incompiute. Anche queste costituiscono parte dei nostri ricordi. E non parliamo di tutto ciò che può ancora capitare nel futuro! Viviamo in questa zona che non esiste…».
E che spazio occupa il presente?
«Ognuno crede di vivere nel presente ma nessuno è capace di farlo davvero…».
Se potessimo alterare il nostro passato e tornare indietro per un momento, cosa raccomanderebbe al se stesso adolescente?
«Gli suggerirei di andare via, perché l’Egitto non era un paese in cui una persona come me avrebbe potuto continuare a vivere. Col senno di poi, è stato meglio essere espulso. A parte questo, spronerei quel ragazzo a compiere alcune delle tante cose che covavo, ma che non sono stato in grado di vivere. Gli direi: “sta’ attento a non perderti, a non trascurarti, perché altrimenti diventerai un’altra persona, vivrai una vita che non è la tua…”. Per quanto difficile, bisogna dialogare con questa dimensione del possibile e del probabile».
Il tempo, nella narrativa, può essere dilatato, compresso un po’ a nostro piacimento, anche alterato o omesso, se crediamo. Nei saggi, con la loro presunta oggettività, questo avviene con maggiore difficoltà. Nella zona ibrida che ha scelto per “Il bacio di Swann”, il tempo può essere gestito più liberamente?
«Certamente. Ad esempio, la gente ha chiesto in merito a Ultima notte ad Alessandria (pp. 352, € 13): come fai a ricordarti tante cose di quando non eri neanche nato? In quel caso, ho cercato di creare un memoir romanzato. Con Chiamami col tuo nome è accaduto l’opposto; la gente mi ha detto: quello che hai raccontato in questo caso deve essere vero per forza?! In realtà, non sono più in grado di capire la differenza tra il memoir e la fiction, tra ciò che è realmente accaduto e ciò che è narrazione. Io passo sempre da una dimensione all’altra; i miei saggi non sono mai pienamente saggi, non sono mai completamente oggettivi, anzi, non lo sono per niente…».
Siamo filtri di ciò che leggiamo? Portiamo con noi la nostra formazione, il contesto in cui viviamo…
«Sono convinto che capiamo il 70% di ciò che leggiamo; il resto sono cose che apportiamo noi nel libro per capirlo meglio (o per capirci meglio). A volte, fraintendendo le opere altrui capisco qualcosa di più di me stesso».
E come vive il fatto che nel corso degli anni possiamo rivedere la nostra posizione critica su un’opera?
«Serenamente, perché anche noi cambiamo. Una persona che si ferma su un’opinione non riflette veramente».
Anche il luogo e il tempo in cui leggiamo influenzano la lettura…
«Per quanto cerchiamo di non introdurre la nostra personalità e il mondo in cui viviamo, è completamente diverso leggere Dostoevskij in un rione popolare di Roma o a Manhattan. L’ho provato in prima persona».
Le è capitato nella rilettura del testo di rivalutarlo?
«Certo! Oggi trovo adorabile Padri e figli di Turgenev, mentre decenni fa, alla prima lettura, non mi era piaciuto veramente, perché è un libro pieno di idee (e, in effetti, io non amo i libri pieni di idee!). Invece ci sono molte scene bellissime, che allora non avevo capito o, perlomeno, apprezzato. Ma avviene anche il contrario… E mi chiedo: come ho potuto adorare certi libri a 14 anni?»
Nel libro serpeggiano ricordi d’amore: incontri che risalgono all’adolescenza, amori finiti prima ancora di cominciare, amori solo in potenza… Il sentimento ha il potere di sconvolgere la linearità del tempo?
«Non saprei, ma di sicuro può sconvolgere. Nella mia vita ci sono stati momenti in cui dicevo a me stesso, già mentre stavo vivendo quel momento: adesso il tempo si ferma; non scorderò mai più questa persona! Poteva trattarsi di un momento irripetibile o di un evento che mi ha fortemente scombussolato; non è importante questo».
Cosa lo è?
«L’importante è che questi momenti ci hanno definiti. E rimarranno per sempre… Ho avuto molte esperienze, specialmente da ragazzo, ma non tutte mi hanno davvero segnato. A causa di alcuni momenti, invece, non sono più diventato la persona che avrei potuto essere. L’amore ci cambia, e non sempre in meglio».
Può farci un esempio?
«C’è un muro dove, quarant’anni fa, ho baciato una ragazza; quando ci passo accanto, quel momento magico sta ancora davanti ai miei occhi; mi sento ancora il ragazzo di allora. Poi cammino e me ne vado…».
E scrive spesso, in effetti, di camminate in città diverse. Dalla partenza da Alessandria d’Egitto a Parigi, Roma, New York, San Pietroburgo… In più punti mette in dubbio di appartenere davvero a una di queste città. La stabilità è un valore da perseguire?
«Da un lato la stabilità va ricercata: la vogliamo perché se no non possiamo intravedere il domani, però io non sono mai stato stabile. Me ne accorgo quando sono in viaggio con mia moglie: lei ama visitare le città; io, invece, cerco sempre un posto dove posso abitare».
Abita a New York da molti anni, si sente americano?
«Lo sono diventato, ma non mi sono mai sentito americano, né inglese, italiano, francese, e specialmente non sono mai stato egiziano… Lo stesso vale per la religione: sono diventato cristiano perché mio padre si era convertito, ma io odio tutte le religioni. E per le nazionalità, non appartengo a niente: mi sento sempre in transito. E tutte le mie conoscenze sono altrettanto “instabili”: nessuno dei miei amici è veramente un americano».
Per quanto si viaggi, non si smette mai però di appartenere al mondo cosmopolita della letteratura. Che lettore era da ragazzo?
«Cercavo una “filiazione”, ovvero cercavo di capire chi ero. Abitavo in un posto di Roma che non mi piaceva per niente, così andavo tutte le settimane in una libreria inglese di Piazza del Popolo, dove sceglievo un romanzo lungo (perlopiù romanzi russi), che mi durasse per tutta la settimana. Poi andavo a Trinità dei Monti, mi compravo un sandwich e restavo lì a leggere sulle scalinate, anche per tre o quattro ore, incurante dei turisti. Un giorno abitavo a San Pietroburgo, un altro a Londra, un altro ancora a Parigi; il tutto, grazie all’immaginazione».
Leggeva sempre i classici?
«Sì, e tutt’oggi evito i romanzi contemporanei, perché cerco opere che mi portino non oltre gli anni Cinquanta, ovvero che marchino la mia nascita. Mi sono dato questa spiegazione: vado sempre indietro per cercare un libro che mi aiuti a comprendere meglio il mondo di mia nonna, dei miei genitori,…»
Li legge tutt’ora?
«Adesso che sono un fanatico degli audiolibri, mi diverte ascoltare i classici mentre vado in bicicletta per Central Park. Di recente ho terminato Guerra e pace e David Copperfield: romanzi lunghissimi, che non avrei riletto in altro modo».
Accanto alla letteratura, l’arte è un’altra grande protagonista del libro: la vive come un conforto?
«Se l’arte non fosse un conforto, non la cercheremmo. In più, ci conferisce qualcosa che non avevamo prima di fruirne. In questo libro, in particolare, ho voluto approfondire un aspetto su cui tutti gli artisti menzionati hanno lavorato, forse inconsciamente: ciò che sarebbe potuto essere. Vado a scavare nelle opere di Proust, Beethoven, Rohmer e altri per dare voce a questo aspetto della loro opera, su cui invece loro si sono soffermati poco. Eppure nelle opere esiste questa promessa di qualcosa che deve avvenire o che sarebbe potuto avvenire o che forse si compirà in futuro».
Le infinite forme del possibile…
«Sì, voi italiani capite bene tutto questo, perché usate abitualmente il congiuntivo, il condizionale e il periodo ipotetico, mentre in altre lingue, come l’inglese e il francese, questi tempi verbali suonano ormai in modo meno naturale».
Quale scena di questo libro conta molto per lei?
«A un certo punto, ne ho scritta una ambientata su un autobus stipato di gente a Roma, durante la mia giovinezza là. Quel giorno di pioggia mi ha veramente colpito, forse anche perché è accaduto qualcosa che non volevo ammettere a me stesso. Ecco… In ogni caso, ho scritto questa scena nel dettaglio per me stesso. Solo in un secondo momento ho capito che poteva confluire nel capitolo su Freud».
Dunque, i capitoli sono stati scritti in momenti diversi?
«Sì. In ogni caso, volevo che ci fosse armonia tra le diverse parti e che tutti i capitoli convergessero su questo tema dell’ipotetico».
In passato ha sempre scritto per sé stesso. È accaduto anche con questa opera?
«Non ho mai avuto in mente un lettore ideale. Chiamami col mio nome (pp. 272, € 13) l’ho fatto leggere alla mia agente, che mi ha detto che avrebbe potuto vendere l’opera molto rapidamente, quando io credevo che il romanzo non avrebbe trovato un pubblico. All’epoca, d’altronde, stavo scrivendo un romanzo molto più impegnativo e profondo. Invece, è accaduto l’impensabile: si parla ancora di Chiamami col mio nome, mentre quasi nessuno ricorda l’altro. In generale, o scrivo un libro per me stesso o, in ogni caso, scrivo di qualcosa che conta veramente per me. Non sono capace di farlo, altrimenti».