Tuttolibri, 6 maggio 2023
Intervista a Jo Nesbø - su "Luna rossa" (Einaudi)
Jo Nesbø è in continuo movimento. Ci sono scrittori che hanno bisogno di chiudersi nella loro stanza, protetti da oggetti e tic, per lottare con il demone della creatività. Jo Nesbø no. Dategli un computer e scrive. Anzi, sembra che mettere qualche migliaio di chilometri tra lui e la sua Oslo sia particolarmente produttivo. Trentenne, dopo aver abbandonato una brillante carriera in finanza (è laureato in economia), una promettente carriera di calciatore (infortunio ai legamenti del ginocchio) e una brillantissima carriera di cantante e chitarrista rock (in Norvegia è una rockstar, e suona ancora nella band dei Di Derre) ha deciso di salire su un aereo per raggiungere l’altra parte del globo (Australia) dove avrebbe iniziato la sua nuova carriera di scrittore. Così fu. Voleva solo provarci, essere pubblicato, è diventato uno dei più noti e fortunati autori di crime fiction e i suoi libri sono successi planetari venduti in più di 45 milioni di copie, tradotti in 50 paesi.
Ora è su un’isola in Grecia, ovviamente a scrivere, dove lo raggiungo via Zoom per parlare dell’ultimo romanzo Luna Rossa. Scrive e arrampica, la sua ultima passione, che l’ha folgorato intorno alla cinquantina e a cui dedica ogni momento libero della sua frenetica e movimentata esistenza.
In tanti anni che racconta il lato oscuro della natura umana, ha capito dove nascono il male e il crimine?
«Un famoso criminologo norvegese dice che il crimine non esiste. Che ognuno di noi ha una gamma di comportamenti e che è solo il caso che ci fa nascere in una certa cultura o in un momento della storia in cui quel comportamento è apprezzato o deprecato. Prendiamo il caso della guerra: uno psicopatico con tendenze omicide probabilmente era al posto giusto sul fronte occidentale durante il Secondo conflitto mondiale. Secondo gli psicologi esistono tipi di personalità fuori dagli schermi, gente che è fatta per infrangere le regole. A me interessa più questo aspetto, io uso la crime fiction per raccontare storie».
Quindi se i crimini non esistono, cosa spinge gli esseri umani a commetterne: esiste il libero arbitrio?
«Non credo nel libero arbitrio. Sarebbe troppo complicato analizzare questo concetto in poche parole, ma credo che sia ingenuo credere che esista. La morale dipende dalle circostanze. Se ripensi alle azioni che hai compiuto oggi, perché dovresti agire in maniera diversa date le stesse informazioni, le stesse circostanze e le stesse emozioni e sensazioni? Le nostre azioni, come esseri umani, sono dettate dall’ambiente che ci circonda. Per questo io non credo neppure nel Male. È un’etichetta che mettiamo su certe azioni che puniamo perché sono contrarie all’interesse della comunità. Ma la cattiveria, come il libero arbitrio, non sono caratteristiche soprannaturali che qualche persona ha e altre no».
Allora perché alcune persone si comportano in un modo e altre no, date le stesse circostanze?
«Il filosofo americano Sam Harris lo spiega nel suo brillante saggio intitolato Free Will e fa piuttosto paura. Spiega la relazione tra le attività cerebrali e le nostre azioni. Le ricerche dicono che, per esempio, nel momento in cui tu ti muovi per prendere un bicchiere d’acqua, il tuo corpo ha già deciso di compiere questa azione prima ancora che il cervello decida di agire. Se è così, pensiamo di poter prendere delle decisioni, quando in verità la decisione è già stata presa dal nostro corpo».
Piuttosto spaventoso, in effetti. Nei suoi libri sembra sempre chiedersi – e chiedere al lettore - non tanto perché gli uomini uccidono, ma cosa ci impedisce di farlo.
«Credo che al lettore piaccia molto vedersi dall’esterno e chiedersi in una forma di divertimento egotista: sarei capace di fare questa cosa? E funziona in tutti i campi, nell’arte come nella fiction come nel cinema. Penso che noi guardiamo gli altri cercando uno specchio. Nel caso di un assassino, siamo affascinati da questi comportamenti antisociali, ci chiediamo se anche noi possiamo agire così. O almeno io lo sono, penso per il mio retroterra familiare. Mio padre ha combattuto durante la Seconda guerra mondiale e mi sono sempre interrogato sul modo in cui gli uomini agiscono e reagiscono in situazioni di estremo pericolo. Uccidere o essere uccisi? Come avrei agito io in quella situazione? Questo per me è interessante, più che le giustificazioni morali che costruiamo a posteriori per giustificare certi comportamenti».
Lei torna spesso a parlare di suo padre, che da giovane combatté accanto ai nazisti contro i comunisti. Una scelta sbagliata, le confessò, ma giustificata dal periodo e dalle circostanze in cui era stata presa, perché i nazisti gli sembravano meno cattivi dei comunisti. I russi sono sempre stati il grande pericolo per la Norvegia. È ancora così?
«In genere dico che non posso parlare a nome di tutti i norvegesi, ma nel caso della guerra attuale credo di sì, di interpretare il sentimento del 95 per cento della popolazione quando dico che condanno le azioni russe e di Putin, che è sostenuto dall’85 per cento dei russi. Anche se l’Ucraina non è una società perfetta ma un paese estremamente corrotto. Ma la vera questione per me è un’altra: come la metteremo con i russi quando la guerra sarà finita e magari Putin non sarà più al potere? È lo stesso problema che abbiamo avuto in Europa con i tedeschi, c’è voluta una generazione per curare le ferite. In Norvegia ci sono ancora persone che hanno reazioni fisiche quando sentono parlare tedesco. Un’altra questione importante è distinguere tra propaganda e notizie».
Capire dove sta la verità non è sempre facile, specialmente nel raccontare una guerra.
Non è un problema solo della guerra. La distorsione della verità è iniziata con Brexit e con l’elezione di Trump. È certo colpa della narrazione e della propaganda creata dalla destra, ma anche i media hanno molte responsabilità. Vorrei tornare a un giornalismo credibile che dia diversi punti di vista, che sia autorevole. Forse sono troppo ottimista, ma penso che ci sia un mercato per la verità e quando c’è un mercato si crea l’offerta di questo prodotto. E i media torneranno a produrre notizie credibili».
La ricerca della verità è il core business anche dei suoi romanzi. Pare funzioni piuttosto bene… Come mai le vittime (anche in questo ultimo) sono principalmente donne?
«Non ho contato le donne uccise nei miei romanzi, ma c’è stata una grande polemica - anche sulla Bbc -sul fatto che nei romanzi polizieschi le vittime sono più donne che uomini e quindi si rappresentano come figure deboli che non sanno difendersi. Il problema è che i dati rispecchiano la realtà, la violenza sulle donne è una realtà e sarebbe peggio se i romanzi polizieschi non la raccontassero».
In Italia abbiamo una parola, femminicidio, che indica i delitti dove la vittima è uccisa in quanto donna. Fa parte di una mentalità e di una cultura patriarcale che pensiamo tipicamente nostre. Dall’Italia guardiamo ai paesi scandinavi come luoghi di uguaglianza, pari opportunità e diritti rispettati. Sbagliamo?
«Da quando ho memoria, in Norvegia le cose sono cambiate per il meglio, ma non significa che la parità è raggiunta e che siamo arrivati alla meta».
Nel suo ultimo romanzo c’è anche un personaggio estremamente ricco e c’è una Oslo disgustosamente opulenta. Anche in Norvegia, che noi pensiamo la patria della redistribuzione e del welfare state, le disuguaglianze sono aumentate?
«Sì. Anche noi seguiamo lo schema disegnato da Thomas Piketty: la distanza tra i più poveri e i più ricchi è andata diminuendo fino agli anni Ottanta, poi il divario è tornato ad aumentare. Anche se siamo un paese in media ricco grazie al petrolio».
Questo è il tredicesimo capitolo della saga di Harry Hole. Dopo così tanti anni si ricorda come è nato?
«Sì, nel 1997 su un aereo verso Sidney dove stavo andando per cinque settimane con l’intenzione di scrivere il mio primo romanzo. Ma non so se è vero o se è ciò che ho detto quando me l’hanno chiesto la prima volta e quindi ricordo non tanto quando è nato ma quando ho detto che è nato».
Una sorta di meta-verità, quindi. Lei pianifica di scrivere un romanzo e diventa un bestseller mondiale. Lo stesso con i suoi romanzi, costruiti alla perfezione. Pianifica sempre tutto con questa precisione?
«Semplicemente ci lavoro molto. Dall’idea iniziale al romanzo finito c’è di mezzo una sinopsi lunga più di cento pagine, piena di dettagli. Cerco di non essere impaziente e di non iniziare a scrivere il vero romanzo finché non è tutto chiaro nella mia mente, soprattutto il tema di fondo. Al di là del plot, mi chiedo sempre prima di iniziare: di cosa parla veramente questo libro? Poi non è detto che segua il piano iniziale al cento per cento, ma è sempre meglio avere un piano e non seguirlo, piuttosto che non averlo. Anche come lettore, mi piacciono gli scrittori dove senti che c’è una chiara direzione. E come scrittore ho sempre salda in mano la storia».
Perché Harry Hole (e quindi immagino anche lei) è così attratto dai serial killer?
«Harry Hole ha seguito un corso dell’FBI a Chicago sugli omicidi seriali. Ma in generale credo che indagando nella mente di un serial killer si arrivi il più vicino possibile al discorso che facevamo prima sull’origine del male. Ti chiedi fino alla fine perché lo fa, quando non sembra ci sia un motivo. In un delitto passionale il motivo è chiaro, non è interessante».
Harry Hole è diventato un alcolizzato che tenta di uccidersi con l’alcol. Scopre di avere un figlio naturale, la moglie è morta, lui è un relitto e un reietto. Di tutti i romanzi questo è il più malinconico. C’è una tristezza profonda, un senso di perdita, una vena più intima rispetto a un classico poliziesco. Come mai?
«Forse perché sono invecchiato. A 63 anni dai più importanza alle relazioni umane, che siano di amicizia, famigliari, amorose. Quando sei più giovane a queste cose non pensi mai».
Visto che parla di invecchiamento e quindi di bilanci, qual è il suo maggior rimpianto?
«Non credo a queste fantasie di guardare la vita a ritroso e pensare che avresti potuto fare qualcosa in modo diverso, date le stesse circostanze. Ma mettiamo che potessi tornare indietro e che le circostanze fossero diverse, tornerei a quando volevo diventare un calciatore professionista. Mi allenerei di più per imparare a calciare con il sinistro, che è sempre stato il mio lato debole».
Contrordine Harry Hole, la morte può attendere
Harry Hole è di nuovo in pista. Suo malgrado, perché, morta la moglie e detto addio alla polizia, il piano era di lasciarsi morire anche lui, scolandosi l’ultimo bicchiere di whisky dopo essersi prosciugato il conto in banca. Ma la morte (sua) può attendere. Capisce che vuole ancora vivere quando si trova davanti alla pistola di un brutto ceffo, per difendere la sua nuova amica Lucille, una attrice settantenne ricattata da una gang di sudamericani. È a Los Angeles, solo e senza più il becco di un quattrino, che lo raggiunge la chiamata di un amico avvocato che lo ingaggia per trovare l’assassino di due ragazze, non proprio delle escort ma neppure delle santarelline. Il cliente dell’amico è un ricco immobiliarista che era il loro sugar daddy ed è sospettato di averle uccise. Harry è ancora il migliore, nonostante il suo pedigree («Gravi negligenze in servizio, lavoro in stato di ebbrezza, alcolista, diversi casi di violenza, abuso di droghe, colpevole – ma non è stato condannato – della morte di almeno un collega»). Non può rifiutare l’offerta dell’amico avvocato perché deve racimolare in fretta molti soldi per salvare Lucille e pagare il riscatto del cartello della droga. Così sale su un aereo e torna in Norvegia, dove mette su una squadra di irregolari quanto lui. Partecipano alle indagini un amico spacciatore, uno psicologo con un cancro in fase terminale e un poliziotto corrotto.
In Luna Rossa Jo Nesbø scrive il capitolo numero 13 della saga di Harry Hole e con la solita maestria costruisce un romanzo solido e dalla trama fitta e avvincente. Niente è come sembra, si scava in profondità soprattutto nell’animo umano e il lettore rimane con il fiato sospeso fino all’ultima pagina. Intrattenimento puro. Cosa altro chiedere a un romanzo poliziesco?