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 2023  maggio 03 Mercoledì calendario

Intervista a Michael Frank - su "Cento volte sabato. Stella Levi e la ricerca di un mondo perduto" (Einaudi)

Michael Frank ha trascorso cento sabati a casa di Stella Levi, nel Greenwich Village di New York, a farsi raccontare la sua vita per scriverne infine un libro. E ha passato un venerdì, a pochi isolati da lì, a raccontare come è nata quell’amicizia, poi collaborazione: cucendo stoffe e fiducia, correzioni e impazienza. Il libro s’intitola Cento volte sabato e uscirà in Italia il 9 maggio. Per quella data Stella Levi, deportata nei campi di sterminio dall’isola di Rodi, avrà compiuto da quattro giorni cent’anni. "Dobbiamo finire prima che io finisca", ricordava a Frank durante quegli incontri. È finito il Novecento, è finita l’esistenza dei suoi peggiori protagonisti, ma lei è ancora qui, a raccontarlo.

Michael, lei in Italia si è fatto conoscere per un memoir familiare, "I formidabili Frank", una storia strepitosa...
"Se posso definirla: più divertente da raccontare che da vivere".

Ecco. Questa invece è la vicenda di un’altra persona, lontana e diversa.
"Eppure ci sono dei punti di contatto. Me ne sono accorto tardi, forse proprio quando ho capito che sarebbe diventata un libro. Avevo chiuso con il personaggio di mia zia, una donna anziana, forte, irresistibile. E ho riaperto con un’altra che le assomiglia".

Quindi i primi sabati non c’era l’intenzione del libro? Come è nata e si è sviluppata?
"Avevo incrociato Stella Levi in pubblico. Una conoscenza comune mi aveva messo in contatto perché correggessi un suo scritto. Sono andato da lei per questo, qualche sabato. Poi ho continuato, sempre alla stessa ora. In questa casa, forse la più pulita che esista. Lei elegante, sul divano. Ogni sabato lo copriva con una stoffa differente. Io mi alzavo per andarle a prendere un bicchiere d’acqua poi ascoltavo, ascoltavo".

Registrava?
"No. Scrivevo al computer, in diagonale rispetto a lei. Battere sui tasti mi evitava di guardarla negli occhi. Credo che, l’avessi fatto, certe cose non sarebbe riuscita a dirle. Durante i mesi del Covid eravamo in città diverse e abbiamo continuato al telefono. Era suggestivo: la voce di Sherazade".

Niente Zoom?
"Abbiamo provato, vedevo soltanto il suo orecchio".

Che cosa sapeva già?
"Praticamente nulla. Della comunità ebraica di Rodi non avevo notizie. In Italia conoscete bene Sami Modiano, invece. Stella evocava, come i cuori evocano, e lo faceva con precisione. Ho controllato alcune cose e coincidono. Ma non volevo scrivere un testo storiografico, né una biografia. È un colloquio, dove io mi metto da parte, ma interagisco e lei segue la memoria, anche avesse dovuto tradirla. Si è fidata, ma col tempo. Non pensava di raccontare i campi, poi ci è arrivata e non smetteva più. Dopo un anno ho capito che quei sabati portavano a un libro: mi è saltato fuori. Lei come al solito è stata prima ritrosa, poi si è lanciata. Alla fine era impaziente che uscisse".

Quando si tratta di parlare della storia degli altri a me si forma nella testa l’immagine di un pacco con la scritta: "Fragile, maneggiare con cura". Pensa di esserci riuscito?
"Ci potrei intitolare un libro futuro così, Handle with care. E sì, credo di averlo fatto. Le ho riletto tutto, ogni parola. Stella è una editor nata. Ha corretto, aggiunto tante cose, ma qualcuna l’ha tenuta per sé, per sempre".

L’effetto finale?
"Non credo alla catarsi. Nelle presentazioni insieme la gente le chiede: adesso è in pace? Millesettecento persone deportate a due mesi dalla liberazione, da quelli che sapevano ormai di perdere la guerra, molti mai tornati dai campi, tra questi i suoi genitori. Uno spreco, uno sfregio, l’assurdità del male. Come può essere in pace?".

E lei? Stava cercando qualcosa di sé in questa storia?
"Sì. E credo di averla trovata. Ma non glielo posso dire adesso. E neanche nel prossimo libro. Forse in quello successivo".

Una volta, proprio qui a New York, ho sentito un superstite dei campi dire che quando ne parlava l’uditorio si stupiva della sua freddezza. Spiegò: perché lo faccio in inglese. Se lo facessi in polacco, la mia lingua, rivivrei tutto così nitidamente da crollare alla seconda frase. Con Stella in che lingua parlavate?
"Italiano. La lingua della sua educazione. Lei aveva la cittadinanza italiana".

Ma l’Italia l’ha tradita...
"Sì. Lei ama ancora gli italiani e le italiane, ma i funzionari di quel tempo passarono ai nazisti, arrivati da pochi mesi a Rodi e teoricamente nemici dal ’43, le liste degli ebrei da deportare, nome per nome".
Parole di Mattarella: "I nazisti agirono con la complicità dei regimi fascisti che consegnarono propri concittadini ai carnefici".
"Incontestabili. Era italiana anche suor Teresa, l’insegnante di Stella. Dopo la guerra lei andò invano a cercarla a Trastevere dove viveva per chiederle perché non avesse cercato di proteggere le sue alunne, perché non fosse nemmeno venuta a dir loro addio il giorno in cui le caricarono sulla nave per condurle via".

L’ultima parola tocca al figlio minore, lei lo cita. Ma quando sarà scomparso anche lui? Quando non ci sarà più l’ultimo sopravvissuto?
"Questa è una grande paura. Stiamo già cominciando a dimenticare. In America cresce l’antisemitismo. In Italia non so come abbiate potuto eleggere quel governo. Parliamo lingue diverse, cambiamo indirizzi, cerchiamo radici nella storia familiare, ma l’identità è ciò che siamo in questo momento. La nostra patria è la memoria. Stella dice che i sogni vanno al di là del linguaggio e ci dicono dov’è la vera casa: con chi ci chiama. Io sogno sempre mia nonna nella casa di Los Angeles: apro la porta e lei è lì e mi domanda perché ci ho messo tanto ad arrivare. Sognavo anche di riportare Stella a Rodi, ancora una volta. Andrò solo, a luglio, nell’anniversario della deportazione. In nome e per conto di lei, con parole sue".