La Stampa, 6 maggio 2023
Intervista a Gigliola Cinquetti
«Questa Luciana che interpreto nel film è’nu guappo’e cartone, una che fa la dura ma che in realtà si emoziona eccome. Se mi somiglia? Da questo punto di vista, un po’ sì. Da altri per niente. Perché per lei invecchiare fa schifo. Per me tutt’altro». A sorpresa Gigliola Cinquetti sta tornando al cinema, con un film diretto da Alessio Di Cosimo che s’intitola L’età giusta (ancora l’età: quella che sessant’anni fa proclamava di non avere) e accanto a tre colleghe che, con lei, promettono un bello scambio di scintille: Paola Pitagora, Giuliana Lojodice, Valeria Fabrizi.
Come sta andando, signora Cinquetti?
«Una botta di vita. Ha idea di quanto sia divertente fare la vecchia? Il nostro è un omaggio a tutte quelle donne che, non dovendo più rendere conto a nessuno, possono finalmente godere della propria libertà. Non c’è neanche stato bisogno di sforzarsi perché ho trovato tre amiche. E si sono chiusi molti cerchi. Giuliana non la vedevo dal Sanremo del 1964, quello di Non ho l’età, appunto: era lei a presentarlo. Valeria era stata ospite di un mio programma su Tmc, “Buon compleanno”. E con Paola avevamo lavorato nel 1964 in due varietà televisivi di Eros Macchi con Dorelli, “Johnny sera” e “Johnny sette"».
Negli anni Sessanta eravate due ragazze simbolo: Pitagora Lucia Mondella e però anche problematica e liberata. Lei la brava figlia di famiglia che i genitori non lasciavano uscire. Almeno nella canzone.
«Ho sempre considerato Non ho l’età come un contenitore al quale si possono attribuire molti significati. Se poi qualcuno vuole dargliene di reazionari, fatti suoi».
Come mai il cinema non si era più ricordato di lei? Risultano solo un paio di film girati da giovanissima.
«Testa di rapa e poi Dio come ti amo».
Un musicarello.
«Sì, ma a Rio de Janeiro l’hanno proiettato nella stessa sala per decenni».
La sua grande carriera internazionale.
«E il cinema c’entra anche con quella, perché le cose avrebbero potuto prendere una piega molto diversa. Ai tempi delle vittorie a Sanremo e poi all’Eurofestival Ladislao Sugar, il grande vecchio della discografia italiana, mi dice che i suoi amici americani della Warner vogliono farmi firmare un contratto e portarmi a Hollywood: cinque film in cinque anni. Mi mette anche in guardia: l’America è un’esperienza dura, non tutte reggono, se ci vai scegli la carriera e basta. A casa tentano di scoraggiarmi, ma io lo voglio proprio fare».
E come mai, alla fine, non parte?
«Chiedo: signor Sugar, ma poi, se firmo, la Warner che cosa mi vuol far fare? Risposta: Deanna Durbin. Una che negli anni Quaranta andava in bicicletta e cantava: “Mi piace il fischio, voglio fischiettare”. Insomma: la ragazza della porta accanto. Orrore. È per quello che ho detto di no».
Per molto tempo, però, l’abbiamo vista defilata: come se si sentisse appagata dalla famiglia e dalla vita di bella signora borghese.
«Intanto però facevo teatro. E giravo il mondo con la musica: per i miei 70 una tournée che ha toccato Madrid, Tokyo, Rio, Bogotà, Parigi. Di teatro, in Italia, mi piacerebbe ancora farne tanto. La famiglia, certo. Ma i figli crescono e c’è molto più tempo. I miei sono adulti, Costantino è architetto e Giovanni scrittore, anche se non gli piace essere definito così. Diciamo che è acculturato. Frequenta la scuola di “Limes"».
E lei che tipo di madre è?
«Credo la tipica madre italiana, anche se quello è un ruolo in cui non conta essere ideologici. Si fa quel che si può, si brancola nel buio seguendo l’istinto. E le cose non sono mai come te le aspettavi».
Con l’Eurofestival alle porte, va ricordato che lei, oltre a quello famoso di Non ho l’età, rischiò nel 1974 di vincerne un altro. Arrivò seconda dopo Waterloo degli Abba, addirittura. Ma la sua canzone venne censurata in Italia, perché s’intitolava Sì e in Italia si stava svolgendo la campagna per il referendum sul divorzio.
«Dove votai no e fui ben contenta che vincesse: stessa cosa per l’aborto qualche tempo dopo. Negli anni, ho partecipato con passione alle vicende politiche. Quel Sì cantato, comunque, mi ha dato una grande soddisfazione: unico caso di brano italiano finito nell’Official Singles Chart, l’hit parade britannica».
L’Eurofestival, dicevamo.
«Al primo andai abbastanza sicura, perché a Sanremo era già successo l’imprevedibile. A 16 anni avevo fatto boom con una canzone che mi pareva fin troppo facile, un’acqua fresca: soltanto dopo avrei capito che conteneva molte finezze. Quella vittoria non mi pareva neanche di essermela meritata. A Copenaghen, invece, già era capitato tanto che potevo aspettarmi il secondo miracolo, perché in pochi mesi la canzone era partita a bomba in tutta Europa. Dieci anni dopo a Brighton, la volta degli Abba, ero molto più consapevole, più tranquilla. Direi che la differenza fra il successo e la professionalità sta proprio nella proporzione fra quello che ti capita e la tua incredulità. Ma l’Eurofestival ce l’ho nel cuore. L’ho anche condotto, a Roma nel 1991. E l’anno scorso, a Torino, ci sono tornata ed è stata un’emozione molto intensa».
Se guarda a quel ’64 con gli occhi di oggi, che cosa pensa?
«Che di sicuro abbiamo perso molte belle occasioni. Però non bisogna mai essere né pessimisti né qualunquisti. Quelli della mia generazione considerano i Sessanta con nostalgia, ma la verità è che il Paese era molto arcaico. Con un’élite avanzata, ma con una forbice larghissima fra i ceti sociali. Nonostante tutto, quello spazio si è molto ristretto».
La sua forza?
«Aver bisogno dello scambio con il pubblico, ma non aver mai rubato in chiesa: cioè non aver mai sollecitato troppo l’istinto di chi ti ascolta. Così è troppo facile. Quello che ho fatto, l’ho sempre fatto con onestà intellettuale. E oggi non ho rimpianti»