La Stampa, 6 maggio 2023
Emoticons e mascherine nella scienza
Il testo integrale “Il volto e la mascherina” di Giorgio Vallortigara, di cui pubblichiamo un brano in questa pagina, uscirà sulla rivista trimestrale “Sotto il vulcano. Idee Narrazioni Immaginari” (Feltrinelli Editore), diretta da Marino Sinibaldi, nel VII numero “Sopravvissuti”, curato da Paolo Giordano, in uscita il 9 maggio.
Possedere una mente sociale implica ricercare attivamente la possibilità di esercitare le diverse abilità di cui questa si compone; come per esempio quella che forse è la più notevole per la nostra specie: l’inclinazione per la pedagogia. Nei quasi dodici anni di solitudine che precedono la scoperta sulla spiaggia dell’orma dell’uomo Venerdì, Robinson provvede a catturare e addestrare, per compagnia, un pappagallo parlante. Seppure limitata nel tempo e nell’ampiezza della deprivazione sociale, noi abbiamo conosciuto di recente una condizione à la Robinson Crusoe, e il tema delle conseguenze della pandemia sulla nostra mente sociale è tra i più enigmatici.Considerate il caso delle mascherine. Risale ai primi anni ’70 la scoperta nelle aree della corteccia infero-temporale dei macachi di alcune cellule nervose selettivamente sensibili all’apparenza di un volto. Questi neuroni sono presenti in gran numero nelle aree del giro fusiforme della nostra specie e altrove (per esempio nei nuclei dell’amigdala). Forse tutte le specie sociali li posseggono, perlomeno quelle in cui i segnali visivi convogliati dall’arrangiamento caratteristico di due occhi e un orifizio buccale – schematizzati nell’emoticon che nella sua forma più stilizzata consiste di tre blob ad alto contrasto disposti dentro un contorno ovoidale come un triangolo a punta in giù – definiscono un muso o una faccia.La completezza dello schema è fondamentale. Nel mio laboratorio stiamo registrando l’attività di questi neuroni nei pulcini di pollo domestico appena schiusi dall’uovo, che non hanno mai visto alcuna sembianza di faccia, né umana né nella sua versione galliforme, dove il blob che sta al vertice inferiore del triangolo sarebbe il becco anziché la bocca. Se questa porzione inferiore manca, il neurone della faccia perde il suo interesse per lo stimolo. Lo stesso sappiamo accadere nella scimmia e nella nostra specie (in casi del tutto speciali è infatti possibile registrare da singoli neuroni nell’uomo, in quei pazienti che dovendo subire interventi neurochirurgici necessitano che si verifichi la funzionalità dei vari distretti cerebrali).I neuroni che rispondono ai volti sono probabilmente presenti alla nascita anche nei piccoli della nostra specie. Non possiamo in questo caso registrare da singoli neuroni, è ovvio, ma l’anno scorso il mio gruppo ha documentato che i bimbi neonati con un’età media di sole 60 ore di vita mostrano un picco nella risposta elettroencefalografica alla vista di faccine schematiche con il giusto orientamento (gli usuali tre blob disposti come due occhi in alto e una bocca in basso) rispetto ai medesimi elementi rovesciati a testa in giù o distorti come in un volto à la Picasso.Questa sensibilità ai volti schematici ha le caratteristiche di una risposta a quelli che gli etologi hanno chiamato «stimoli supernormali». Stimoli, cioè, che convogliano in una forma esuberante le caratteristiche di certi aspetti del mondo naturale che sono di fondamentale importanza per la sopravvivenza di un organismo. Un esempio famoso è il comportamento di begging che esibiscono i pulcini di gabbiano reale becchettando il becco dei genitori per ottenerne il rigurgito del cibo e quindi il nutrimento. L’etologo Nikolaas Tinbergen aveva mostrato come una matita a strisce bianche e rosse fosse un succedaneo assai più efficace del becco di un conspecifico per elicitare la risposta dei pulcini, a dispetto della sua scarsa verosimiglianza come becco. In maniera analoga, le faccine schematiche appaiono irresistibili alla vista di un neonato più e meglio di un volto naturalistico: la loro funzione, in realtà, sembra proprio essere quella di attirare l’attenzione dei piccoli verso quegli stimoli che assomigliano alle facce. Sono una sorta di sembianza primaria, di idea platonica del volto. (...) Con il procedere delle ore l’attrattività delle faccine schematiche svanisce, mentre cresce l’attenzione dei neonati nei riguardi delle caratteristiche morfologiche dei volti reali, che consentirà loro, a breve, di distinguere il volto della madre da quello di un’estranea.Nel periodo della pandemia le mamme sono state invitate a indossare la mascherina in ospedale anche durante l’allattamento, il che ha generato le condizioni per uno straordinario esperimento naturale: investigare gli effetti, a breve e a lungo termine, della deprivazione parziale degli stimoli forniti dalla vista del volto materno sui neonati. (...) Quale potrebbe essere l’effetto sulla funzionalità di questi neuroni se in un periodo critico per lo sviluppo del sistema nervoso non hanno avuto l’opportunità di incontrare gli stimoli giusti? Diversi laboratori oltre al nostro sono impegnati in queste ricerche e la risposta richiederà ancora un po’ di lavoro. Ma non solo nei neonati: le conseguenze della parziale copertura dei volti (che non è limitata alle mascherine, ma che con sciarpe, veli e bandane può assumere una varietà di connotazioni, dalla protezione alla moda, fino al simbolo religioso) sono poco note nei termini della percezione, della cognizione sociale e della comunicazione. Sembra ben assodato che la copertura parziale del volto possa compromettere la lettura delle espressioni facciali, il riconoscimento dell’identità personale o l’identificazione del flusso del parlato sulla base dell’input visivo, ma sappiamo poco di come essa potrebbe influenzare altri aspetti dell’interazione sociale: per esempio, l’affidabilità percepita in un individuo e in generale le attitudini nei suoi riguardi o, ancora, come la direzione percepita nello sguardo si modifichi quando guardiamo volti parzialmente coperti.Alcuni aspetti delle ricerche che sono state condotte fin qui, anche sulla spinta della pandemia, appaiono sorprendenti (cfr. il numero speciale di Frontiers in Neuroscience, Impact of Face Covering on Social Cognition and Interaction, 2023). Si è potuto osservare per esempio che, anche se le mascherine riducono di circa il 30% la capacità di riconoscere le emozioni convogliate da un volto, non lo fanno in maniera equanime per tutte le emozioni: la tristezza e il disgusto ne sono assai influenzate, mentre l’emozione della rabbia non lo è quasi per nulla. La presenza della mascherina fa sì che l’attenzione si rivolga agli occhi, tuttavia il cosiddetto sguardo reciproco (mutual gaze) a quanto pare non viene riconosciuto più accuratamente nei volti mascherati, anche se sembra che questi facciano aumentare la sensazione di essere guardati.(...) Lo sviluppo ipertrofico del cervello sociale ha reso del tutto particolare anche il nostro rapporto con la tecnologia. Ne ha parlato Chiara Valerio in La tecnologia è religione (Einaudi). (...) Nella tecnologia agisce una componente magica perché, a differenza della conoscenza scientifica, non tende alla comprensione del reale nella sua complessità, ma usa invece la conoscenza scientifica per darci prodotti che posseggano una parvenza amichevole, che siano per l’appunto socievoli.Anni fa, gli psicologi Fritz Heider e Marianne Simmel condussero un celebre esperimento, mostrando a un campione di soggetti un cartone animato che aveva per protagonisti due triangoli e un cerchio che si muovevano tutt’attorno o all’interno di una cornice rettangolare. I movimenti dei tre oggetti venivano interpretati come se fossero prodotti da agenti intenzionali, per esempio come quelli di due amici o di due innamorati minacciati da un terzo figuro la cui condotta aggressiva viene respinta. La nostra comprensione naturale della tecnologia è intrisa di questa concezione intuitiva secondo cui il mondo sarebbe costituito da agenti dotati di scopi e intenzioni. Quante volte abbiamo imprecato di fronte a un qualche congegno, meccanico o elettronico, lamentandoci del suo comportamento come se si trattasse di un agente dotato di intenzioni? Superstiti come Robinson sull’isoletta del nostro io, riproduciamo nelle nuove tecnologie i medesimi, antichi rituali ispirati dalla nostra biologia: la ricerca ossessiva di “qualcuno”, di un agente dotato di scopi, perché non ci soddisfa che “qualcosa”, un cieco meccanismo, regga la trama del mondo – un mondo dove nulla è indirizzato a un fine e dove è assente la qualità. —