La Stampa, 6 maggio 2023
La svolta presidenzialista
Dopo mesi di preparazione all’ombra dell’avvio dell’azione del governo, la riforma presidenziale, perno del programma elettorale con cui Meloni e il destra-centro a settembre hanno vinto le elezioni, è pronta a vedere la luce. Ci ha lavorato, riservatamente e a contatto con la premier, la ministra Casellati. Martedi 9, dalle 12,30 alle 18, le due siederanno insieme per un giro di consultazioni formali con i gruppi parlamentari delle opposizioni, da +Europa al Pd, cercando di vincere le resistenze manifestate finora. Ma anche se dovessero trovarsi di fronte a una serie di invalicabili «no», la decisione è ormai presa e il testo sarà adottato in una delle prossime sedute del consiglio dei ministri, entro la fine di maggio.
Da quel momento in poi, è facile aspettarselo, il presidenzialismo, quale che sia la forma che verrà scelta, diventerà il fronte di uno scontro parlamentare, prima, e nel Paese, poi, per il referendum confermativo, senza esclusione di colpi. Qualcosa di simile, ma forse anche più pesante, vista la portata del cambiamento di cui si discute, di ciò a cui si assistette nei famosi «mille giorni» del governo Renzi, tra il 2014 e il 2016, quando l’allora segretario-premier del Pd propose, e per certi versi impose, il passaggio dal bicameralismo al monocameralismo (con un completo depotenziamento del Senato), accompagnato da una legge elettorale che si avvicinava a una quasi elezione diretta del premier. Approvato dopo un iter parlamentare assai tormentato, il progetto fu respinto nel referendum popolare, segnando il tramonto della stella di Renzi.
Proprio perché questa esperienza le è ben presente, Meloni s’è mossa fin qui con cautela, consigliando lo stesso atteggiamento a Casellati. La quale ha studiato attentamente le esperienze precedenti: la Commissione Bicamerale Bozzi, di cui ricorrono i quarant’anni, e le successive De Mita-Iotti (1993-‘94) e D’Alema (1997-‘98), conclusa con il famoso «patto della crostata», siglato a casa Letta e caduto per un ripensamento di Berlusconi. È una lunga storia, che attraversa stagioni politiche molto differenti, dalla Prima Repubblica alla Seconda a quella attuale: ma la sensazione che se ne ricava è che il fallimento delle Bicamerali sia stato determinato, oltre che dalla difficoltà della prova, dalla confusione politica che si generava al loro interno, con la formazione di maggioranze spurie, diverse da quelle dei governi, di cui finivano per ostacolare l’andamento. Ecco perché, da Enrico Letta in poi, passando per Renzi, le commissioni sono state archiviate e si è preferito percorrere la via maestra indicata dalla Costituzione con l’articolo 138: quattro passaggi dello stesso testo dalle Camere, con votazioni a intervalli non inferiori a tre mesi e referendum confermativo da parte degli elettori, se la riforma è approvata con una maggioranza semplice, e non di due terzi dei senatori e dei deputati. Ed ecco ancora perché le riforme istituzionali, quando diventano l’obiettivo di un governo e di uno schieramento, occupano un’intera legislatura, o comunque la parte più produttiva dei cinque anni di vita parlamentare da un appuntamento elettorale all’altro.
Sul suo tavolo, la ministra Casellati ha allineato due possibili ipotesi di cambiamento: la prima è il presidenzialismo o semipresidenzialismo, che qualcuno chiama «alla francese», ma forse sarebbe meglio definire «all’italiana»: l’elezione diretta del Capo dello Stato che manterrebbe più o meno gli stessi poteri di adesso, formalmente di pura rappresentanza dell’unità nazionale, ma in realtà molto forti, come s’è visto in questi anni di crisi politica e transizione infinita da una Repubblica all’altra. Poteri che non potrebbero che essere rafforzati da una scelta diretta del corpo elettorale, e mettere in secondo piano quelli del Presidente del consiglio, che continuerebbe ad essere nominato dal Presidente della Repubblica, e vincolato alla fiducia espressa dalle Camere. Nel caso in cui questa dovesse essere la proposta di Meloni e Casellati, il testo recherebbe una piccola ma significativa postilla: la riforma entrerebbe in vigore dopo il 2029, anno di scadenza del secondo settennato mattarelliano: un atto di riguardo verso il Presidente in carica, che non è detto sarebbe sufficiente a non indebolirne l’azione, nell’ultimo periodo di mandato parlamentare e in attesa, sia del successore, per il quale inevitabilmente partirebbe subito la campagna elettorale, sia della prima sperimentazione dell’elezione popolare.
La seconda ipotesi della Casellati è il cosiddetto«premierato forte» o elezione diretta del capo del governo. Si tratterebbe, insieme, di un passo verso il modello tedesco del Cancelliere, e di una razionalizzazione del tentativo fatto informalmente, per non dire goffamente, dal centrodestra e dal centrosinistra tra il 1994 e il 2013, quando si cominciò a indicare sulle schede dei partiti membri delle coalizioni il nome dei candidati premier: «Berlusconi presidente» e «Prodi presidente». Agli elettori, in assenza di una vera riforma, veniva consentita di fatto la scelta «di un uomo, un programma e una coalizione», come si diceva allora. La mancanza di una legge, però, fece sì che al primo tentativo andato a vuoto – la «non vittoria» di Bersani nel 2013 –, tutto o quasi tutto tornasse come prima, e ogni partito candidasse il proprio leader alla guida di un governo che poi necessariamente sarebbe stato frutto di accordi politici successivi al voto.
In questo caso, se la riforma andasse in porto, oltre a dotare il presidente del consiglio di poteri più volte promessi e mai realizzati, come ad esempio il diritto di scegliere, ma anche licenziare i ministri, muterebbe a favore di Palazzo Chigi il rapporto con il Quirinale. Inoltre si creerebbe qualche problema tra governo e Parlamento. Perché l’Italia resterebbe formalmente, forse solo formalmente, una repubblica parlamentare: ma per garantire alle Camere il diritto di sfiduciare un esecutivo si arriverebbe al paradosso di un governo scelto da milioni di elettori che verrebbe mandato a casa da un paio di centinaia di deputati o di senatori. Una contraddizione difficile da sanare.
Esaurito il lavoro preparatorio, la decisione politica spetta a Meloni. Che la prenderà, com’è stato annunciato ieri, anche in base all’atteggiamento delle opposizioni. Se ci sarà una compatta levata di scudi, con l’uso di argomenti di propaganda come «il tentativo di stravolgere la Costituzione», la premier dovrebbe valutare se aggiungere il problema della Grande Riforma ai tanti che ha già, o ripiegare verso un compromesso. Dall’interno della maggioranza, infatti, non si avvertono cori da crociata. Salvini ha portato a casa l’autonomia differenziata per le regioni, ed è quel che gli interessava. Sa che le due riforme, presidenzialismo e autonomia, o marciano insieme o insieme deperiscono. Ma sulla prima è Meloni a decidere: e il Capitano certo non si straccerebbe le vesti a vedere la sua alleata muoversi sul ciglio di un dirupo e alla fine magari precipitarci dentro, come accadde a Renzi. Quanto a Berlusconi, assorbito com’è dai suoi problemi di salute, gli rimangono poco tempo e risorse da dedicare ad altro. Si metterà anche lui in tribuna a godersi lo spettacolo.
Ma se invece le opposizioni, tutte o in parte, decidessero di andare a vedere il gioco? Se Schlein, che finora non ha voluto pronunciarsi, affidando al capogruppo al Senato Boccia il compito di trattare con Casellati, obiettasse: si può discutere di un rafforzamento dei poteri del presidente del consiglio, non della sua elezione diretta, contraria allo spirito della Costituzione? E se Conte – candidato virtuale, come Meloni, alla prima sfida popolare – facesse un’apertura? Paradossalmente tutto diventerebbe più complicato per la donna che ha fatto del dialogo diretto con gli elettori la sua piattaforma. Facendo un passo indietro, rinunciando all’elezione diretta, si piegherebbe per la prima volta. E se invece scegliesse di rilanciare, il presidenzialismo, più che il premierato, si presterebbe meglio a diventare la sua bandiera. —