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 2023  maggio 06 Sabato calendario

Intervista a Ludovica Ripa di Meana

Autrice di documentari televisivi, scrittrice, giornalista. Ha attraversato vari generi: la poesia, la drammaturgia, il romanzo, le interviste. Da un paio di mesi ha compiuto novant’anni: “La mia storia più importante è stata quella con Vittorio Sermonti”
Quella fragilità del corpo, che ogni novantenne vive come una minaccia, non le impedisce di combattere ancora e raccontarsi attraverso la forza del ricordo. E i ricordi, per Ludovica Ripa di Meana, sono come scatole meccaniche che si aprono da sole. «È strano – dice – ma da qualche tempo non devo più compiere sforzi per ricordare.
Non è la mia mente che pesca tra i ricordi, ma sono questi che si lasciano cadere dall’alto, come piccole gocce di luce. Oggi il passato mi rende meno incerta e mi fa dire che la vita che ho avuto – bella o brutta che sia stata – mi è appartenuta interamente, con gli uomini che ho amato e a volte detestato, i libri scritti, i sogni inseguiti, i figli realizzati. E se tu mi chiedessi che cosa provo, ti risponderei che non provo nessuna nostalgia». Ludovica i suoi 90 anni li ha compiuti da un paio di mesi. Autrice di documentari televisivi e scrittrice, ha attraversato vari generi: la poesia, la drammaturgia, il romanzo, le interviste. Alcune memorabili. Le invidio un paio di libri: un volumetto sugli ultimi giorni di Gadda e soprattutto le conversazioni con Gianfranco Contini. Più che un libro un laboratorio per rimettere a posto un pezzo negletto della storia culturale italiana. Ludovica siede su un divano e racconta di sé con voce bassa e lieve.
Dietro, la vista di una Roma che dalla Collina Fleming sembra ancora campagna. Niente, per quel che ricordo, è cambiato dall’ultima volta che ci siamo visti insieme al suo compagno Vittorio Sermonti, scomparso nel 2016.
Cosa ti manca di Vittorio?
«L’essenziale e forse di più. Tutto quello che nella casavedi ha subito pochissime modifiche. Da anni vivo sola e penso che la continuità tra il passato e il presente sia dettata dalla necessità di cambiare il meno possibile il posto degli oggetti, i libri, le poltrone, i quadri, le foto».
Come un fermo immagine.
«Una fotografia corrisponde a questo stato d’animo che descrivo».
Sbiadita?
«Per niente. È come se ogni volta una certa luce del passato irrorasse questo fermo immagine e producesse nuove interpretazioni. Qualcosa di sorprendentemente analogo mi sembrò di viverlo nella casa di Contini e in quella di Gadda. Come se anche lì il tempo si fosse arrestato».
Su entrambi hai scritto delle belle pagine.
«Più che altro un atto dovuto. Nel caso di Gadda delle note diaristiche riposte e uscite 40 anni dopo la sua morte. Andai da lui, con la mediazione di Giancarlo Roscioni, per intervistarlo. Viveva in una casa molto modesta. Di una tristezza che afferrava alla gola.
Sedeva normalmente su una poltrona da giardino, fatta con i fili di plastica, che troneggiava nel salotto.
C’era la stanza dove dormiva e quella di Giuseppina, la domestica».
Che impressione ti fece?
«Poteva essere dolce o iroso; timido fino all’imbarazzo o severo nel tono. A volte isterico. Ricordo un duetto con Giuseppina che a volte lo provocava, facendogli il solletico. Beh, un giorno assistetti a una scenetta insolita. Giuseppina che rivolgendosi a me diceva “signora mia la vede sta criatura in poltrona – la creatura era Gadda – troia mi ha detto. Brutta troia, mi ha chiamato”. E Gadda con occhi furiosi pieni di odio che le diceva mi lasci in pace, vada via!».
Litigavano spesso?
«Non lo so, non credo. Tanto è vero che poi quel pomeriggio si concluse con la lettura dei Promessi sposi,il romanzo che Gadda amava sopra ogni altro».
Contini invece?
«Con lui è stata la frequentazione tra un maestro e una specie di allieva con studi disordinati alle spalle.
Dovevo fargli un’intervista radiofonica. Ma l’ictus gli aveva creato problemi di espressività. L’austero filologo, che alla parola aveva dedicato tutto se stesso, non era più intelligibile. Ma fu accogliente. Ricordo che mi presentai tutta tremebonda e lui capì quanto fossi disarmata. Si rese conto immediatamente della mia inadeguatezza culturale. Eppure fu generoso e prodigo di storie quando gli chiesi se potevamo immaginare un libro insieme. Per otto giorni andammo a Domodossola dove era nato. Aspettava il nostro arrivo sulla soglia della casa».
Chi c’era con te?
«Ero con Vittorio Sermonti che a Contini aveva chiesto una supervisione del suo lavoro su Dante. Quando il libro intervista fu finito e dopo averlo letto disse di aver sentito nuovamente la sua voce. Gli occhi gli sorridevano».
Il taglio ricordava lo sguardo enigmatico di un mandarino cinese.
«È vero, ed era capace di abbracciare la vastità di un impero».
Vista la tua “inadeguatezza” come ti eri posta davanti a lui?
«Volevo innanzitutto capire e per capire dovevo essere umile. Dice Simone Weil che l’umiltà è la prima qualità dell’attenzione».
Accennavi ai tuoi studi disordinati, a cosa si dovevano?
«A un crollo economico della famiglia. Mio padre ufficiale, aristocratico piemontese, incapace di guadagnare. Mia madre, figlia di un importante politico austriaco, era piuttosto dotata per gli affari.
Vivevamo, intendo io e i miei sei tra fratelli e sorelle, nell’agiatezza. Dopo la guerra finì tutto. La famiglia si impoverì perdendo i capitali e le proprietà. I miei si separarono e io smisi di studiare. La retta scolastica era troppo alta. A 16 anni andai a lavorare. Il primo impiego fu segretaria in un’agenzia immobiliare.
Capisci allora il mio terrore davanti a Contini. In pratica sono una autodidatta».
A parte l’impiego cosa facevi a Roma?
«Ero rapita da questa città che alla fine degli anni Quaranta era bellissima. Lo era così profondamente da farmi pensare che l’essere umano sia inappropriato davanti a Roma».
Vuoi dire inerme?
«È la sensazione di impotenza che scaturisce dallo scarto tra l’eternità della città e la caducità umana.
Sono convinta che il cinema abbia potuto ambientarsi a Roma solo grazie a questo contrasto. Qui ho avuto le prime storie sentimentali fino all’innamoramento con Carlo Aymonino».
L’architetto?
«Proprio lui. Un uomo bello e ti confesso che ho sempre avuto una passione per gli uomini belli».
Anche tu non scherzavi quanto a grazia e bellezza.
«Sì, ma allora, a vent’anni, non mi prendevo sul serio.
Però la bellezza, quella altrui, ha avuto un potere enorme su di me».
Eravamo rimasti ad Aymonino.
«Ci mettemmo assieme nel 1951 e ci sposammo che ero incinta. Negli anni che abbiamo condiviso ho fatto la moglie e la madre. Mi stavo intristendo. Oltretutto, Carlo era comunista e ci poteva stare, ma lo era in maniera ottusamente ideologica. E poi, quandoscoprii l’uomo aggressivo, incline alla violenza verbale e perfino fisica, cominciai a star male. Ricordo che durante un diverbio mi diede una spinta, caddi urtando dei mobili e con la caduta si concluse il nostro rapporto».
A proposito di maschi violenti qual è il tuo rapporto con il femminismo?
«Non ho un grande feeling, per dirla tutta non l’ho mai avuto».
Perché?
«Certi discorsi teorici, fondati sul concetto di differenza, di cui capivo ben poco, mi sono sembrati questioni ideologiche. Non voglio dire che certe rivendicazioni non fossero giuste, anzi, ma penso che il potere delle donne sia fatto di una sostanza molto più fluida e invece quello che notavo era la volontà di sostituirsi al dominio maschile con un potere altrettanto duro e inscalfibile».
Tu hai scritto che la cosa che le femministe non hanno capito è che siamo tutti ermafroditi.
«Non ci vedo nulla di sbagliato nell’amare l’altro sesso e contemporaneamente il proprio».
Ma tu hai avuto storie solo maschili?
«Se mi fossi innamorata di una donna non ci sarebbe stato problema».
Lasci Aymonino e che succede?
«Vado a lavorare alContemporaneo sotto la guida di Antonello Trombadori. Da lì sono passata alla Feltrinelli di Roma collaborando con Giorgio Bassani».
Con Bassani di cosa ti occupavi?
«Era una redazione composta da due persone: lui e me. Ricordo che lessi una copia del dattiloscritto del
Gattopardo. Con Bassani si stabilì un rapporto buono. Quando scrisse Il giardino dei Finzi Contini mi disse che per il personaggio femminile di Micòl si era ispirato a me».
Si era innamorato di te.
«Non penso, era un uomo con una bella scrittura classica ma totalmente privo di temerarietà. Invece chi mi fece una corte molto discreta fu Antonio Delfini che Bassani mi presentò. Veniva spesso in redazione e come un vecchio gentiluomo mi accompagnava per un tratto di strada. Allora ero fidanzata con Piero Craveri, di cui ho un bellissimo ricordo».
Ti è servito il lavoro editoriale?
«Moltissimo. Una persona cui devo tanto è stata Raffaele Crovi. E poi ci fu Elio Vittorini, che frequentai quando mi trasferii a Milano alla Mondadori».
Cosa faceva Vittorini alla Mondadori?
«Presiedeva la collana laMedusa. Io facevo la “cucina”, correggevo soprattutto bozze. È stato un rapporto corretto. Ma eravamo due anime timide destinate aignorarsi. Ho lavorato per un paio d’anni e poi sono tornata a Roma, anche perché c’erano gli strascichi giudiziari con Carlo che mi aveva preso i due bambini».
I tuoi figli?
«Aldo e Livia. Non credo di essere stata una madre perfetta. Voglio dire che la prima cosa che ho pensato quando sono nati, nell’ordine prima Aldo e poi Livia, è stato beh, ora siete al mondo e non vi considero mia proprietà. Vi amo, vi rispetto. Ma siete altro da me. È un ragionamento che puoi fare a un adulto non a una creatura appena nata».
Diciamo che non li hai soffocati di affetto.
«No, ma avrei potuto dedicar loro più tempo».
Il tempo, per esempio, che hai dedicato a Vittorio.
«Ma sai, la relazione con Vittorio vive in un’altra dimensione. È stata la storia con la esse maiuscola.
Un giorno gli dissi: siamo come un decrepito ermafrodito. Due vecchie anime fuse insieme».
Come lo hai conosciuto?
«Avevo intravisto quest’uomo bellissimo e brillante da molto giovane. Mi risultò subito antipatico. Poi, anni dopo, fu Enzo Muzii con cui avevo condiviso una lunga storia ormai finita, a insistere che lo conoscessi. Come argomento usò un libro di Vittorio appena pubblicato, Il tempo fra cane e lupo. Mi disseleggilo. E quando settimane dopo incontrai Vittorio a una cena gli dissi: hai scritto un libro bellissimo. Era la storia del periodo in cui viveva a Praga. Dopo poco ci mettemmo assieme. Primi anni Ottanta. Siamo stati una cosa sola fino alla sua morte nel novembre del 2016».
Ora che non c’è più?
«Questi anni trascorsi senza di lui mi hanno detto da che parte stare. È come se un Vittorio invisibile avesse tracciato un cerchio dove potermi collocare. Ora sono lì, con i miei nervi, la mia memoria e la voce che ti sta raccontando. Mi illudo che non sia cambiato niente. E sono qui in attesa. Un paio di anni fa un ictus ha rallentato la mia vita. Mi sono ripresa. Sto bene.
L’unico strascico è un incerto equilibrio. Ed è buffo».
Buffo cosa?
«Buffo che per quasi tutta la vita abbia avuto bisogno della vertigine dell’altezza. Il resto è stato istinto».
Stai alludendo a Dio.
«Anche. Il mio Dio non nasce dalla testimonianza religiosa. Dio è una parola che assorbe tutto. Un buco nero. La parola che non si può sapere. La soglia che non puoi superare. È il limite che noi umani ci siamo dati. Se mi chiedo perché sono al mondo non ho risposta. Ma c’è quella parola. Che mi fa affrontare pene, perdite e dolori. È lo stordimento e la vertigine che mi afferra in questo tempo di attesa che non passa mai».