Robinson, 6 maggio 2023
Intervista a Roger Daltrey
Con Pete Townshend ha fondato gli Who negli anni ’ 60 Una storia leggendaria che a giugno arriva a Firenze dove eseguiranno i loro classici con l’Orchestra del Maggio
Ha cantato ai festival di Woodstock e di Wight, è stato in scena nel giorno di Live Aid e in quello del concerto per le vittime dell’11 settembre, con gli Who si è esibito nei palcoscenici di tutto il mondo, il suo grido inWon’t get fooled again ha segnato in maniera indelebile la musica del Novecento, e con Pete Townshend ha illuminato una parte molto rilevante della storia della musica del secolo scorso. Ma in questo nuovo secolo, anzi millennio, Roger Daltrey ha ancora canzoni da cantare e gli Who hanno ancora buone storie da raccontare. Il lcantante inglese ha settantanove anni ed energia a sufficienza per essere ancora in giro per il mondo con un nuovo spettacolo, che lo vede in scena non solo con il suo storico gruppo ma anche con un orchestra, per dare vita diversa alle canzoni che Pete Townshend ha scritto e che solo lui sa davvero interpretare. Concerto che arriverà in Italia, il 17 giugno per il festival Firenze Rocks, alla Visarno Arena, e che li vedrà sul palco con l’Orchestra del Maggio Musicale Fiorentino.
Pete Townshend dice che a suo avviso è lo spettacolo più bello che gli Who hanno fatto in sessant’anni. Che esperienza è per un cantante come Daltrey, cresciuto con il suono delle chitarre elettriche, del basso edella batteria, cantare con un’orchestra?
«È banale dire che è diverso, lo so, ma è da lì che bisogna partire. Perché per un cantante rock, abituato all’essenzialità, all’immediatezza, è come avere attorno uno spazio molto più grande e caldo. È un suono che ti da modo di pensare di più. E poi è un suono vero che entra in relazione diversamente con lo spazio fisico. Non saprei definirlo meglio, ma so che per assurdo è più facile cantare con un’orchestra che con una band».
Perché?
«L’orchestra ti fa sentire protetto, sai sempre cosa accadrà dopo e non ci sono imprevisti clamorosi che ti spingono altrove. Ma questo non vuol dire che tutto sia prevedibile. In questo giro di concerti abbiamo orchestre diverse, i musicisti e i direttori cambiano ogni giorno e ognuno interpreta la nostra musica, ci offre qualcosa di inatteso. E poi va detto che non è solo un’esperienza diversa per noi ma anche per chi è sul palco con noi. Sono musicisti che suonano Mozart o Beethoven e si trovano a fare rock con i loro strumenti e la loro capacità e questo per molti è sorprendente. E poi, per chi non riuscirà a vedere i concerti mi lasci dire una cosa…».
Dica pure
«Abbiamo appena pubblicato un album, The Who with Orchestra – Live at Wembley. Beh, va ascoltato nellaversione in vinile, il suono è davvero magico. I Cd sono una fregatura, la più grande fregatura che ci ha dato l’industria, una simulazione di quello che è vero, non la verità».
Non ama le tecnologie?
«Il suono del vinile è più vicino alla realtà, più vicino ai sentimenti che ci sono nella musica, negli strumenti, nella voce».
Ha recentemente detto che non ha più senso fare dischi al giorno d’oggi…«Abbiamo pubblicato un album nuovo nel 2019, è andato in classifica, era un bel disco, ma non è successo niente, le canzoni sono volate via in questo curioso modo nel quale volano via oggi. Mentre le canzoni vecchie sono ancora con noi. E poi, noi lavoriamo ancora alla vecchia maniera…».
In che senso?
«Oggi gli artisti scrivono le loro canzoni a casa, le registrano rapidamente e nel giro di pochigiorni le pubblicano sulle piattaforme. Noi invece ci mettiamo molto tempo, ragioniamo, lavoriamo, non siamo in sintonia con questa rapidità».
Com’è dopo 50 anni trovarsi a cantare ogni sera le stesse canzoni?
Non gliene viene mai a noia qualcuna?
«No, sarebbe impossibile, il pubblico lo vedrebbe, gli Who non sarebbero più gli stessi. Io cerco di trattarle ogni sera come se fosse la prima volta che le canto, il mio obbiettivo resta sempre quello di connettermi con chi è davanti a me e mi ascolta. E poi va detto che la musica degli Who non è per tutti, è musica che devi ascoltare con attenzione, non è insensata. Certo, puoi ballare, saltare, gridare mentre la suoniamo, ma la devi ascoltare e capire. La nostra è musica da battaglia».
Una battaglia in favore di cosa?
«Quello che spero che la gente avverta è la forza positiva della nostra musica, lo sguardo verso le possibilità. E che avverta la gioia che porta nella nostra vita è importantissima, è una delle ultime libertà che abbiamo. Nella musica siamo davvero liberi. Ed è per questo che i politici la odiano…».
Com’è costruito questo show?
«Come un’unica opera, con un’overture, uno svolgimento, un crescendo, in modo che alla fine il pubblico abbia viaggiato con noi».
Cos’è che, ancora oggi, caratterizza il suono degli Who?
«C’è chi pensa alla mia voce o al suono della chitarra di Pete. Ma io so che è qualcosa che sta nel nostro ritmo e nel modo che aveva di suonare Keith Moon. Quando Keith è morto nel 1978 abbiamo cercato di suonare con altri batteristi, ma lui era un genio: aveva esplosioni, contrasti, nulla di prevedibile, e noi attorno a quella imprevedibilità abbiamo costruito la nostra musica.
Senza di lui qualcosa di magico si era perso. Ma poi abbiamo avuto la fortuna di trovare Zak Starkey, il figlio di Ringo Starr, che ha la stessa qualità di Keith: è pericoloso».
Che cosa vuol dire cantare le parole scritte da Pete Townshend?
«È una persona particolare, ha dei pensieri oscuri, laterali. Non riesco a cantare tutto quello che lui scrive, ma quello che canto lo capisco interiormente. Abbiamo una relazione magica, non abbiamo condiviso la nostra vita privata, ci vediamo poco fuori dal palco. Ma quello che accade tra me e lui sul palco va oltre ogni discorso, trascende ogni altra emozione».
Siete venuti poche volte a suonare dal vivo nel nostro paese…
«È vero, gli Who ci sono stati poche volte, ma l’Italia è l’unico posto in cui vengo a suonare volentieri anche se mi pagano solo il viaggio e l’albergo.
Qui la gente ama la musica, la comprende, la vive, non è un fatto di moda ma di sentimenti».