Robinson, 6 maggio 2023
recensire gli esordienti
Stefano MassiniIl primo romanzo preso in considerazione tra gli autori alle prime armi è “Quasi niente sbagliato” di Greta Pavan, ambientato in una Brianza di cemento, catrame e plexiglassUdite, udite, parliamo adesso di opere prime. A voler essere sinceri, esse sono un po’ la no man’s land del nostro sistema letterario, sospese fra i nobili intenti di chi incoraggia la nuova leva e la sostanziale irrilevanza a cui i titoli si trovano destinati, salvo una manciata di lodevoli premi alla categoria che ahimè valgono spesso solo come zirconi da incastonare nel curriculum, senza ricadute sull’effettiva diffusione dell’opera. Sarà certo perché i libri esistono sempre più come emanazione della star che li ha scritti, e ciò inevitabilmente esalta chi è già sul red carpet contro chi non è ancora noto ai più, ma quanto si deve davvero a questa falla nel meccanismo, e quanto invece ai limiti oggettivi dei libri? È domanda drastica, ma ineludibile.Per tentare una risposta, chiediamo soccorso a Pier Vittorio Tondelli. Oggi avrebbe quasi 70 anni, e chissà quante altre pagine folgoranti ci avrebbe consegnato se l’Aids non l’avesse strappato ai vivi nel dicembre del ’91. Ebbene, nessuno come Tondelli si presta a diventare paradigma di quanto sia raro centrare il bersaglio con un’opera prima: era il 1980 e questo ignoto venticinquenne di Correggio esordiva in libreria per Feltrinelli con Altri libertini, destinato a entrare fra i casi letterari dell’anno insieme a Il nome della rosa di Eco (che peraltro era stato fra i suoi docenti universitari al DAMS). A fare i conti con l’opera prima di Tondelli era un’Italia andreottiana, ancora inebetita dall’incubo di Moro, frastornata dal boato della Strage di Bologna e dal silenzio altrettanto assordante di Ustica, in un continuo susseguirsi di proiettili e di sangue che opprimeva come un macigno il potenziale battito d’ali dei primi nati del dopoguerra. Tondelli col suo debutto fu il Prometeo che conferì il fuoco della consapevolezza alla sua generazione, ostaggio dell’eroina e dello sbando esistenziale, per cui sullo scaffale delle librerie prendeva forma finalmente un evento necessario, di spudoratissima ferocia, tanto che in poche settimane divenne oggetto di carte bollate e di sequestri per indecenza. Fra i critici, com’è noto, in molti non seppero capire la portata detonante del libro, che più veniva derubricato a fenomeno transitorio, e più cresceva nel clamore, imponendosi come uno spartiacque tutt’altro che effimero. Che cosa c’era, dietro il boom di Altri libertini?Senza dubbio, mi si dirà, quei racconti incarnavano l’esigenza di esprimere un vuoto, un’asimmetria squassante e indifferibile, per cui Tondelli fu nei libri quello che il suo quasi-coetaneo Vasco Rossi era nei dischi. Ma tutto questo sarebbe rimasto davvero una fiammata circoscritta, se non si fosse tradotta in una scrittura potente, eversiva ma letteraria, e soprattutto libera da stereotipi, come lo sarebbe stata sette anni dopo l’opera prima che consacrò un certo Foster Wallace. In fisica, d’altra parte, una delle fondamentali leggi diNewton vuole che l’equilibrio di un corpo statico si abbia solo se la risultante delle forze che vi agiscono è nulla: la stessa cosa non vale forse per un buon esordio letterario? Se vi respiriamo l’influenza di furbi modelli da classifica, se vi percepiamo il canto di sirene di una pronta resa cinematografica o tv, non è questo sufficiente, mi chiedo, a sbilanciarne l’autenticità? Quando nel 1992 Quentin Tarantino firmò il suo debutto conLe iene, fu subito evidente che il film non assomigliava a niente, conteneva una sua nitida personalitàdi segno e di linguaggio, esattamente come era stato Quarto potere,pellicola d’esordio di OrsonWelles.Forse è anche per mettere in crisi la geremiade sulla disattenzione riservata alle opere prime, che ho accettato la provocazione diRobinson di leggerne eccome, leggerne molte, per qualche settimana, alla ricerca di quello che potremmo chiamare “il teorema Tondelli”, ovvero il miracolo – raro ma possibile – di un debutto non affetto da emulazioni, furbizie, tattiche da marketing o scorciatoie ammiccanti, che poi niente sono se non lo stigma del livellamento identitario di cui scriveva Pasolini, ben prima che la cultura si scoprisse cacciatrice di like e di recensioni a suon di emoticon sulle piattaforme.E dunque, fra gli esordi che in ordine sparso ho finora letto, annoto che il magistero di Elena Ferrante emana ispirazioni e modelli come la dea Lakshmi con gli indù, in un proliferare di amicizie fra quasi-sorelle sullo sfondo di meridioni disastrati e rottami familiari su cui indugiare con la spietatezza dell’entomologo. Aria più pura mi è parso di respirare inQuasi niente sbagliato, di Greta Pavan (Bollati Boringhieri), dove sprofondiamo in una Brianza di cemento, catrame e plexiglass, in quella Lombardia in cui la professione di fede si dichiara all’Iban e la claudicanza esistenziale della protagonista si trascina in una specie di narcosi, alla non-ricerca di un futuro irreperibile o non pervenuto, con Milano post-testoriana che sembra la Mecca dell’hype, e gli anni che passano ormai contratti in cifre, a scandire i titoli dei capitoli come codici a barre da leggere col laser. È come aggiornare di mezzo secolo la trilogia vigevanese di Lucio Mastronardi, scoprendo che la droga del denaro si è nel frattempo spolpata di quella che sembrava l’ebbrezza del benessere, traducendosi in un vuoto talmente devastante che perfino il ritratto di una ventenne assomiglia a una natura morta con figure. Tutto questo abominio ci viene narrato con una lingua abrasiva, eczematosa, intrisa di un nulla che forse indigna, forse sconcerta, forse commuove, di certo smuove reazioni di segno opposto, ben venga se sconnesse e contrastanti, accidentate come in fondo lo è l’apprendistato (lavorativo e umano) di questa Margherita orfana di troppe cose. E se questo campo minato di incertezze ti contagia alla lettura, la missione può dirsi compiuta.