Corriere della Sera, 6 maggio 2023
Gli 80 anni di Malcolm McDowell
«Quel ruolo mi ha fottuto», dice Malcolm McDowell. L’attore britannico a giugno compie 80 anni, e 50 li compie il film che ha segnato la sua vita: Arancia meccanica di Stanley Kubrick, il maestro con cui lui, turbando i nostri sonni, ci ha fatto conoscere l’indimenticabile Alex, il teppista perso nella violenza cieca. Con Kubrick, McDowell ha avuto un rapporto «controverso».
Perché?
«Quando litigavamo volavano parolacce tra noi. Aveva richieste maniacali, delle vere ossessioni sul set. Sono stato fregato, ero un giovane attore che ha dovuto promuovere gratuitamente il film. Stanley mi ha imbrogliato facendomi firmare una carta in cui c’era scritto che avrei rinunciato al 2,5 percento degli incassi. All’anteprima, sui credits, vedevo il suo nome dappertutto, Kubrick di qua, Kubrick di là, tanto che mi chiesi stupefatto: ehi, non c’è nessun altro che ha fatto questo film?».
Come le parlò di Alex?
«Partì dall’interpretazione. La voleva con uno stile esagerato, essendo senza morale avrei dovuto rendere Alex simpatico. La stampa liberal, come il New York Times, ci accusò di essere fascisti, di aver reso divertente il mio personaggio».
Ci sono scene che restano incollate, Alex che irrompe con i drughi in casa dello scrittore e di sua moglie.
«Non riuscivano a venire a capo della scena dello stupro alla donna e della violenza al marito. Io aspettavo di capire come avremmo dovuto girarla. Dopo cinque giorni Stanley mi chiese a bruciapelo: Can you dance?, Sai ballare? No, gli risposi, ma cominciai a muovermi canticchiando Singin’ in the rain (Cantando sotto la pioggia). Il film di Gene Kelly mi diede una specie di strana euforia, cantavo in modo naturale. Stanley fece un gesto come a dire, abbiamo trovato la quadra. Un anno dopo l’uscita, a Los Angeles, mi invitarono a una festa con la vecchia Hollywood. C’era anche Gene Kelly, lui girò i tacchi e se ne andò senza darmi la mano. All’amico che me lo aveva presentato dissi, devo chiedergli scusa di qualcosa? No, rispose, solo che gli hai rovinato la scena più famosa della sua carriera, sporcando il suo ballo gaio e festoso. Okay, dissi, però in Arancia meccanica funzionava».
Altri aneddoti così belli?
«La scena sul letto d’ospedale, quando il ministro degli Interni accorre per vedere i miei progressi dalla folle violenza di cui ero stato prigioniero, e vuole imboccarmi… Stanley era ansioso, stava sulle spine. Io per velocizzare le cose pensai di aprire meccanicamente la bocca, di spalancarla in maniera ossessiva mentre mi davano da mangiare pezzi di bistecca uno dopo l‘altro. Stanley rideva, io masticavo, e ho capito che non avrebbe seguito la sceneggiatura in quella scena».
Tra politically correct e cancel culture, sarebbe possibile girare adesso «Arancia meccanica»?
«Difficile dirlo, ma nemmeno allora, se non ci fosse stato Stanley, dubito che le major avrebbero finanziato un film del genere, per quanto non risultò così costoso».
Oggi cosa la disturba?
«Il sangue gratuito al cinema, non mi piacciono i film horror, anche se ne ho fatti uno o due. Poi sono disturbato da quello che succede nel baluardo della democrazia, gli Stati Uniti. L’America è stata infettata e soggiogata da un tipo che si chiama Trump. Un uomo egocentrico e narcisista che si crede un semi dio mentre non lo è per nulla».
Lei, che in gioventù ha interpretato la violenza più scatenata, nella vita è un pacifista.
«Mi ritengo un uomo di buon senso. In America non bandiscono le armi, basterebbe un voto al Parlamento. La National Rifle Association ha un potere enorme, è una lobby corrotta che invoca il secondo emendamento sull’uso delle armi, ma quello fu istituito nel 1776 e aveva come unico scopo quello di liberarsi degli inglesi».
Ottant’anni: bilancio?
«Sono soddisfatto perché non ho mai voluto fare film di cassetta che portassero dollaroni, anche se ho partecipato a Star Trek e ho avuto l’onore di uccidere Kirk, così ce ne siamo liberati».
Sogni?
«Ne avevo uno, lo sto realizzando. Non avevo ancora mai girato un film western, esperienza che qualunque attore prima o poi deve fare. In The Last Train to Fortune sono un maestro elementare caduto in disgrazia, viene espulso dalla scuola in Inghilterra e va negli Usa, prende un treno ma perde la coincidenza e si ritrova in un capannone abbandonato in mezzo al nulla dove incontra un cowboy armato che si offre di accompagnarlo nel suo viaggio. Poi vorrei fare un film sui vampiri».
Gli incontri della sua vita, a parte Kubrick?
«Non era semplice lavorare con lui, tuttavia sono stato fortunato, era un genio dal carattere impossibile. Matthew Modine mi raccontò che durante le riprese di Full Metal Jacket stava per nascere suo figlio, e allora chiese un breve permesso ma Kubrick glielo negò: se vedi tuo figlio qualche giorno dopo il parto di tua moglie, cosa ti cambia?».
«2001 Odissea nello spazio»?
«Altro film leggendario, d istrutto dalla critica Usa, dissero che tre quarti d’ora senza un dialogo era mer… Non ne colsero lo spirito rivoluzionario. Allora cambiarono campagna promozionale, mostrando nel manifesto il feto di un bambino con la scritta «L’ultimo viaggio». Per attivare la stampa alternativa fu necessario rivolgersi alla controcultura incarnata da riviste come The Village Voice. Così cominciò il lungo cammino trionfale di quel film».