Robinson, 6 maggio 2023
Sul libro Cuore
Accusato di buonismo, vituperato dai grandi intellettuali, da Gramsci a Natalia Ginzburg, da Arbasino a Eco, il primo bestseller italiano è in realtà una grande storia dei nostri emigrati. Proviamo a leggerlo cosìCriticare Edmondo De Amicis è diventato come sparare sulla Croce Rossa. «Deamicisiano» sta per «smielato, pervaso di sentimentalismo patetico». Ma non tutto De Amicis rientra in questa formula.Limitiamoci per ora al Libro Cuore ( 1886), tralasciando i reportage su Parigi o Costantinopoli – capolavori di giornalismo letterario –, o il delizioso romanzo Amore e ginnastica. ilCuore, primo grande bestseller della nostra letteratura ( nel 1923 arrivò a un milione di copie!) viene considerato la quintessenza del buonismo più stucchevole, il trionfo della letteratura edificante e svenevolmente “virtuistica”, fatto a pezzi dalla critica. Da Gramsci – «servile verso le classi dirigenti» – a Natalia Ginzburg – «abile, falso e furbissimo» e ad Arbasino, che lo associa a Puccini entro la stessa temperie sadico- morbosa. Effettivamente nella sua variegata pedagogia del pianto non ci risparmia nulla: piccole vedette lombarde impallinate dagli austriaci, tamburini sardi che hanno perso una gamba, piccoli patrioti padovani venduti dai genitori ai saltimbanchi, figli che si sacrificano rimproverati da padri ingrati, nipoti che si fanno accoltellare per difendere la nonna, bambini “rachitici”, gobbi, malati e ciechi, genitori spesso in fin di vita, piccoli patrioti, piccoli spazzacamino e piccoli naufraghi. Forse solo Dickens,che secondo Manganelli ci prendeva a «bambini morti in faccia» potrebbe degnamente competere con lui. Però chiediamoci: cosa ci dà tanto fastidio in De Amicis? Non tanto l’amore per i buoni sentimenti – peraltro amati anche da Cechov ( tanto più grande di Gide, convinto invece che con i buoni sentimenti non si fa buona letteratura!) – quanto questo stesso amore irrigidito in una retorica, in un sentimentalismo ricattatorio. Troppo spesso la critica del buonismo diventa insofferenza per la bontà stessa, bontà per noi sempre disturbante perché ci ricorda le eccezioni alla legge universale della forza, cui tutti ci conformiamo. Prendiamo la attuale moda letteraria del neoimpegno. Possiamo trovare stucchevoli tanti romanzi su migranti e vittime della violenza, ma appunto perché li giudichiamo falsi e furbi. Di fronte al buonismo consolatorio del neoimpegno resta presente nel senso comune della maggioranza degli italiani il peggior “cattivismo”: la malcelata ammirazione per i vincenti e per i prepotenti “simpatici”, la colpevolizzazione dei poveri e degli “sfigati” (parola-feticcio del nostro tempo), il pregiudizio aberrante per cui più sei cattivo e più sei intelligente… Torniamo a De Amicis. Celebre è l’attacco che gli portò Umberto Eco nell’Elogio di Franti, dove il personaggio del cattivo senza redenzione, dileggiatore di ogni virtù nazionale, viene considerato un precursore dell’anarchico regicida Gaetano Bresci. Davvero il socialismo umanitario di De Amicis, per quanto dolciastro e moralistico, preparò l’imminente fascismo (che, lo ricordo, diffidava del Libro Cuore)? Proviamo a ribaltare la tesi di Eco, che sarebbe certo stato al gioco. Forse Bresci, figlio di contadini (non indigenti) e poi lui operaio filatore, imbevuto della retorica libertaria ottocentesca, è invece parente di Garrone, il “buono” delCuore, figlio di operai, sempre disinteressatamente dalla parte dei più deboli. Bresci non era affatto un terrorista ma un giustiziere “etico”. Torna in Italia, dal New Jersey dove si era stabilito, solo per vendicare l’eccidio di Milano di Bava Beccaris. Per fare una cosa del genere occorrono una dose di idealismo e un oltranzismo morale che nel libro deamicisiano appartengono tutti a Garrone – una “anima nobile” –, non a Franti che sbeffeggia i deboli e gli sventurati (ieri operai feriti e vecchie inferme, oggi migranti assiderati e disabili davanti a una barriera). Di fronte alla retorica del Bene non troviamo di meglio da fare che celebrare – conformisticamente – il Male, così come faceva la setta gnostica dei “cainiti” duemila anni fa?Uno dei meriti del Cuore è che ci regala l’unica narrazione italiana dedicata ai nostri emigranti: Dagli Appennini alle Ande ( tre anni dopo prolungata in un romanzo, Sull’oceano).Se pensiamo che la vicenda dell’emigrazione ha segnato in profondità il nostro paese ( ne sono partiti 30 milioni!) è singolare come non disponiamo di un solo vero romanzo su questa epopea collettiva, salvo quelli nella lingua di arrivo, l’inglese degli italo- americani. Unica eccezione quel raccontino incastonato nelCuore. I “valori” del Cuore sono la famiglia, la patria, il lavoro (manca Dio, assenza rimproverata dalla chiesa). Soffermiamoci sulla patria. Lo scrittore appare oscillante: da una parte il suo patriottismo manifesta un intenzione guerrafondaia, associando la patria a un nemico – che minaccia di invaderci –, proprio come fanno oggi i nostri governanti. Così smentendo l’aforisma di Saba: «Patriottismo, nazionalismo e razzismo stanno fra loro come la salute, la nevrosi e la pazzia». Qui la “patria” coincide già con la nevrosi, con la “nazione”, dunque da difendere con le armi. Una cosa ancora giustificata due decenni dopo l’Unità ma oggi perversamente anacronistica. Dall’altra proprio nelle prime pagine il maestro fa entrare in classe un ragazzino calabrese: «Vogliate bene al vostro fratello venuto di lontano. Egli è nato in una delle più belle terre della nostra patria… fategli vedere che un ragazzo italiano, in qualunque scuola italiana mette il piede, ci trova dei fratelli». Patria dunque come fratellanza inclusiva. Immagino che Franti sorrise beffardo, ma noi da che parte stiamo?