ItaliaOggi, 6 maggio 2023
Orsi & tori
Deve fare più paura il fallimento delle banche e il debito pubblico di vari stati, con in primo piano l’Italia, oppure l’escalation di allarmi sui pericoli dell’intelligenza artificiale, specialmente dopo le clamorose dimissioni e le dichiarazioni dello scienziato Geoffrey Hinton, premio Nobel, che ha lasciato Google dove è stato decisivo per lo sviluppo dell’AI con la quale è stato possibile creare le cosiddette reti neutrali? «Mi sono dimesso da Google per poter spiegare meglio al pubblico quello che ci aspetta, cioè i rischi cui sta andando incontro l’umanità», ha dichiarato.
E contemporaneamente Yuval Noah Harari, professore all’Università ebraica di Gerusalemme, considerato una autorità sullo sviluppo o sui pericoli che corre l’umanità, ha scritto un articolo che già dal titolo fa venire i brividi: «I computer narratori cambieranno il corso della storia umana» e dopo aver riconosciuto che l’AI sta guidando gli
sviluppi più significativi in campi come la medicina, l’istruzione, la finanza e l’industria, aggiunge che la stessa AI sta trasformando il modo in cui le informazioni sono elaborate e comunicate, il che a sua volta sta cambiando la natura del potere e dell’influenza nella società umana: l’AI sta così creando una nuova forma di «dittatura digitale» (sono le sue precise parole), in cui le grandi aziende tecnologiche controllano l’accesso e la distribuzione delle informazioni e influenzano profondamente il pensiero e il comportamento delle persone.
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Finora, scrive Harari, le paure si concentravano sulle macchine che usavano mezzi fisici per uccidere, schiavizzare o sostituire le persone. Ma negli ultimi due anni sono emersi nuovi strumenti di intelligenza artificiale che minacciano la sopravvivenza della civiltà umana da una direzione inaspettata. L’intelligenza artificiale ha acquistato alcune notevoli capacità di manipolare e generare il linguaggio, sia con parole, suoni o immagini. L’intelligenza artificiale ha quindi violato il sistema operativo della nostra civiltà.
Basterebbe questo pezzo di analisi, compiuta su The Economist, per preoccuparsi seriamente, ma Harari va oltre e afferma che l’AI sta creando nuove forme di diseguaglianza e discriminazione, in quanto solo alcune persone o gruppi hanno l’accesso e il controllo sui dati e sui sistemi di intelligenza artificiale rispetto al resto dell’umanità. E secondo Harari ciò potrebbe portare a un aumento delle disparità economiche e sociali, nonché a violazione dei diritti umani. Per questo Harari esorta la società civile a riflettere sulla natura dell’essere umano e sulla relazione degli esseri umani con l’AI. E sostiene che la tecnologia stia già influenzando il modo in cui pensiamo e interagiamo come esseri umani e che quindi dobbiamo essere consapevoli di ciò e cercare di sviluppare una visione più ampia e riflessiva del nostro posto e ruolo nel mondo.
Tuttavia Harari sostiene che l’AI non è intrinsecamente buona o cattiva, ma che piuttosto tutto dipende dall’uso che ne viene fatto. Per questo invita la società civile a discutere apertamente e democraticamente sull’uso e soprattutto sulla regolamentazione per minimizzare i rischi e massimizzarne i benefici per l’umanità.
E a chi spetta la regolamentazione se non a chi ha il potere di legiferare, appunto se non ai parlamenti e ai governi?
E’ quanto avete potuto leggere una settimana fa. Il governo inglese, con l’agilità di non essere più nella Ue, ha già costituito una task force per analizzare e indicare i provvedimenti che devono essere presi per scongiurare gli enormi pericoli che il premio Turing Geoffrey Hinton ha prospettato. L’Italia è stata la prima in Europa a prendere un provvedimento grazie al garante della privacy, ma OpenAI titolare di ChatGPT ha subito corretto i meccanismi e il garante ha ridato via libera alla Chat. Sarebbe un gravissimo errore se si pensasse, come ha spiegato bene Harari, che il pericolo sia solo la privacy. Le iniziative regolatorie devono essere ben altre e prese a livello mondiale per avere efficacia; per questo il primo finanziatore di OpenAI, Elon Musk (sempre lui), insieme ad altri autorevoli personalità ha chiesto che lo sviluppo e l’addestramento della Chat e più in generale della AI generativa venisse bloccato per almeno sei mesi, e chiaramente in questi sei mesi gli Usa, la Ue, e tutti i paesi che hanno a cuore la democrazia e il bene dell’umanità dovrebbero varare regolamenti che riducano al minimo i danni e i rischi. E per un residuo di distacco dai potenti del digitale, la Casa Bianca finalmente ha convocato i capi di tutti i grandi gruppi, da Google a Microsoft. Probabilmente sull’ottantenne presidente Joe Biden ha fatto breccia anche l’autocritica pronunciata alla Stanford University dell’ex presidente Barack Obama, che ha riconosciuto la follia dei finanziamenti e della libertà concessa agli Ott. Speriamo che Biden, essendo all’epoca vicepresidente, abbia imparato la lezione.
Occorre ragionare, mi ripeto volentieri su un tale concetto, come quando fu fatta la prima fusione nucleare. Se ci fosse stato un intervento regolatorio, forse, anzi quasi sicuramente, non ci sarebbero state Hiroshima e Nagasaki.
Per una volta l’Italia, sulla scia del garante, dovrebbe muoversi immediatamente, almeno sulla scia di Biden, per chiedere pubblicamente al parlamento europeo di elaborare subito, insieme al resto del mondo democratico, regole che limitino al massimo i pericoli denunciati dal premio Turing (il Nobel dell’informatica) Hinton, da Harari e da Yoshua Bengio, scienziato canadese del computer che ha promosso la petizione per lo stop di sei mesi. Hinton e Bengio sono considerati i padrini dell’AI. Se sono preoccupati loro non dovremmo preoccuparci noi?
Noi tutti, ma in particolare noi giornalisti perché l’intelligenza artificiale generativa sta mixando il giornalismo, o meglio l’informazione, in una zuppa di linguaggi, testi, commenti, che rendono inaffidabile il sistema dell’informazione. «L’intelligenza artificiale cambierà il giornalismo più di quanto sia cambiato negli ultimi 30 anni» è l’opinione di un maestro del giornalismo. «Le notizie possono diventare appunto una sorta di zuppa mista di parole, che viene vissuta in modo diverso da persone diverse». Amen.
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Il fallimento non solo di Credit Suisse in Europa, ma anche di grandi banche locali americane come First Republic di S. Francisco, sia pure immediatamente rilevata da JP Morgan Chase, evoca per molti il 2008. Infatti, il fallimento di First Republic è il secondo per dimensione negli Usa, con 229,1 miliardi di attivo, dopo che in quell’anno fallì Lehman Brothers. E dal 2008 iniziò, specie in Italia, una delle più terribili crisi economiche del paese. E ci volle, nel 2012, l’arrivo alla Bce di Mario Draghi con il suo ormai iconico «tutto quello che serve» e appunto la decisione di immettere in Europa tutta la liquidità che serviva. Fu l’avvio per cominciare un lento recupero della crescita del pil in Europa e nel mondo.
Quindi sì, al pari della AI anche per altre dinamiche, il fallimento delle banche, sia pure non in Italia, mette paura anche in Italia, dove pure le banche, come conferma Bankitalia, sono oggi solide. A far paura appunto non è il rischio di fallimenti di banche del paese, bensì la possibile crisi economica che può innescarsi, proprio come avvenne ai tempi di Lehman. E, non si può fare a meno di ripeterlo, se le banche sono solide è il bilancio dello stato che fa acqua con il più alto debito pubblico rispetto al pil dopo la Grecia. Se si aggiunge che all’orizzonte c’è il rinnovo del Mes (Meccanismo europeo di stabilità), inevitabilmente, l’Italia dovrà approvarlo, essendo l’unico paese della Ue che ancora non lo ha fatto. Inoltre, il nuovo patto di stabilità allo studio esigerà come minimo una riduzione dell’1% all’anno. Tutto ciò mentre l’Italia avrebbe bisogno che lo stato aumenti i propri investimenti e faccia politiche di sostegno delle fasce più deboli del paese.
Se non bastasse a Francoforte non c’è più Draghi, che aveva messo in minoranza, nel famoso consiglio d’amministrazione del 28 luglio 2012, la Germania che ha sempre imposto morigeratezza e addirittura parsimonia alla Bce. Infatti l’unico che non votò a favore delle proposte di Draghi fu l’allora presidente della Bundesbank, Jens Weidmann, la cui potenza nella banca centrale europea era la maggiore. E quando nella conferenza stampa che seguì il consiglio Draghi spiegò che Weidmann aveva votato contro, tutti i mercati europei andarono in negativo, ritenendo che contro la Germania non si potesse andare. Il presidente Draghi ebbe la cortesia di avvisarmi di non trarre conclusioni negative affrettate e di aspettare l’apertura dei mercati americani, con le cui autorità lo stesso Draghi evidentemente era in sintonia. E infatti quando aprì l’America in rialzo, anche gli operatori europei capirono che Draghi non era solo.
A evocare oggi brutti pensieri è il fatto che la Banca centrale europea sta chiedendo il rientro dei prestiti; continua ad alzare i tassi di interesse e altrettanto fa la Fed, anche se dopo l’aumento ulteriore di 0,25 di pochi giorni fa il presidente della banca centrale americana, Jerome Powell avrebbe fatto intendere che quello dello 0,25% potrebbe innescare un certo lasso di tempo senza altri aumenti: una sosta per osservare l’andamento dell’inflazione. Peccato che il 5,25% raggiunto è il tasso di sconto più alto in Usa dal 2007.
Con la presidente della Bce, la francese Christine Lagarde, di fatto condizionata da Germania e dagli altri paesi frugali, è evidente che l’Italia se la deve sbrigare da sola. E purtroppo anche il contesto politico nazionale non è ideale. Non perché la presidente Giorgia Meloni non abbia la grinta e la determinazione necessaria per sostenere una linea economica positiva. Ma perché per trovare un riferimento, una convergenza di scelte, la presidente Meloni è dovuta andare fuori dalla Ue, cioè a Londra, dove la convergenza delle idee con il nuovo premier Rishi Sunak è stata totale. Diversamente che con la Germania in cui il maggior partito sono i socialisti del Spd, che oltre a essere essi stessi per l’austerità devono governare con i liberali e i verdi, che con Isabel Schnabel in Bce sono per il taglio duro del debito. E anche con la Francia, il tentativo della presidente Meloni di dialogo con Emmanuel Macron si sta infrangendo sulla questione immigrati, dopo che giovedì 4 il ministro francese dell’interno Gerald Darmanin non ha usato mezze parole: «C’è un vizio nell’estrema destra italiana, che è quello di mentire alla popolazione. C’è un afflusso di migranti a Mentone perché Merloni che guida un governo di estrema destra scelto dagli amici di Le Pen, è incapace di risolvere i problemi migratori per cui è stata eletta». Amen.
Insomma, per un verso o per l’altro l’Italia rischia di non avere feeling positivo in Europa con chi conta, nonostante gli sforzi personali della presidente Meloni. E quindi questo status di frizione e non di intesa si riverbera inevitabilmente a Bruxelles, dove il commissario all’economia Paolo Gentiloni, nonostante l’impegno e la professionalità per cercare di gestire con equilibrio il Mes, non può non trovarsiin difficoltà.
C’è evidenza che l’opinione sul debito dei maggiori paesi della Ue è che l’Italia se la deve cavare da sola. E anche se il bravo ministro dell’economia Giancarlo Giorgetti, con spirito draghiamo, cerca di tenere botta e di puntare sullo sviluppo, cioè sul denominatore nel rapporto debito pubblico/pil, all’orizzonte vedono solo molte nubi. Sono troppe anche le questioni aperte internazionali: dalla guerra che continua in Ucraina, alle prossime elezioni americane, al fatto, come detto, che in Germania con il governo di coalizione a tre l’intransigenza è aumentata.
Tutto questo suggerisce, ma lo suggeriamo quasi tutte le settimane, di sottrarsi al ricatto favorito dal super debito pubblico con una operazione straordinaria. Signor Ministro Giorgetti, mi sento autorizzato a ricordarLe che il ceo di Intesa Sanpaolo è a disposizione per studiare una valorizzazione e cessione del patrimonio che lo stato ha ritenuto di girare agli enti locali, quand’era al suo posto sulla scrivania di Quintino Sella il suo attuale collega di partito Giulio Tremonti. Con il risultato che per molti enti locali, in molti casi, quei beni immobili sono diventati un peso piuttosto che un vantaggio e in molti casi sarebbero ben lieti di vederli valorizzati e posti a riduzione del loro debito che concorre, per tutti gli enti locali, al debito pubblico nazionale per circa 700 miliardi.