il Giornale, 5 maggio 2023
Intervista a Cat Stevens, o meglio Yusuf
«Sono fortunato a poter fare ancora questo lavoro». Cat Stevens, o meglio Yusuf come si fa chiamare dopo la conversione all’islam, compirà 75 anni a luglio poco dopo aver pubblicato il nuovo album King of a land ed essere passato in Italia a suonare il 18 giugno all’Auditorium Parco della Musica di Roma. «Sto preparando con attenzione il nuovo tour, studio i visual, la scaletta, le band che apriranno i miei concerti. Proprio in queste ore è morta la cantautrice Linda Lewis, e questi lutti ti aiutano a dare una prospettiva diversa a ciò che fai». In sostanza questo artista dolce e garbato, che ieri ha parlato da Dubai, è una delle poche leggende rinate: era un colosso negli anni ’70, poi si è ritirato, è stato «cancellato» per tanto tempo a causa di un presunto ma smentito appoggio alla fatwa contro Salman Rushdie e infine è ricomparso negli anni Zero per capitalizzare una fama obiettivamente globale. Cresciuto e sbocciato nella swingin’ London a fine ’60, autore di Father and son o Wild world, brani tuttora fortissimi nell’immaginario di un paio di generazioni, come tanti altri artisti coetanei non pubblica un brano di successo mondiale da tanto tempo però continua a portare in scena non solo il proprio repertorio ma soprattutto uno stile di vita, un’epoca, forse anche tanti ricordi e altrettanta nostalgia. «Ma questo disco King of a land per me è una sorta di dichiarazione dei miei ideali». Prima del disco, pochi giorni fa ha pubblicato A manifesto for a good king dedicato a Carlo III che sarà incoronato domani. «Anche se in Gran Bretagna si è divisi tra chi vorrebbe che la monarchia continuasse e chi no, credo che il Re sia un simbolo di unità». Nel Manifesto scrive che «la democrazia ha bisogno di una spolverata». Lei è monarchico? «Io sono un fan della monarchia». Che cosa consiglia a Re Carlo? «Di non dimenticarsi che è un servo di Dio e che quindi deve servire prima Dio e poi il popolo. Ma oltre a queste cose, è anche giusto osservare che i politici dicono tante balle e, come scrivo in una canzone, li chiuderei tutti nello zoo di Londra». Lei scrive che, se fosse il re, «libererebbe tutti». «Li libererei dalla schiavitù». E gli artisti che parlano a favore di Putin dopo l’invasione dell’Ucraina? Roger Waters ad esempio. «Intanto attenzione: questo è un argomento sensibile perché riguarda tanta gente che muore. Ognuno può avere il proprio punto di vista su questa guerra». Il suo? «Io stesso, per esempio, ho posizioni divisive sulla Palestina ma noi artisti dobbiamo essere consapevoli del peso delle nostre parole. Insomma bisognerebbe parlare quando si conoscono bene le cose, non gettare benzina sul fuoco. In ogni caso, la pace è e resterà il mio principale obiettivo». Il suo primo disco è del 1967. Un’era musical-geologica fa. «Oggi è molto difficile valutare la musica. C’è lo streaming, che è un gigantesco flusso, una sorta di tsunami che mi confonde. Forse per questo torno sempre più spesso ad ascoltare la musica del passato». Perché? «C’erano idee. E c’erano cose che non erano mai state fatte prima. Anche se le mie canzoni sono su Spotify, sono molto disorientato. Ora poi arriva pure l’intelligenza artificiale...». Mezzo secolo fa, nel disco Foreigner, lei ha pubblicato una canzone lunga oltre diciotto minuti. Se lo facesse oggi? «Sarebbe molto indie. Allora ero un artista fortissimo e con quella canzone ho voluto tagliare i ponti con la discografia e le sue regole». E ora? «Qualche anno fa Bob Dylan ha pubblicato un brano sull’assassinio del presidente Kennedy (Murder Most Foul – ndr). È lungo diciassette minuti e neanche io sono riuscito ad arrivare alla fine». Lei ha avuto la tubercolosi a fine anni ’60 e poi ha rischiato di morire annegato a Malibù nel 1977. In che modo questi eventi l’hanno condizionata? «Spiego tutto nel libro che uscirà tra poco. Di certo George Harrison è stato molto importante per me nei periodi nei quali capisci che sarai giudicato per le promesse non mantenute».