il Giornale, 5 maggio 2023
Studiare Malaparte
Nella bella biografia dedicatagli Maurizio Serra definisce Curzio Malaparte un «apolide delle ideologie» difficilmente inquadrabile a destra o a sinistra perché «inviato speciale nella terribilità della storia, capace di passare senza muovere un muscolo del volto dai salotti alle trincee, dalle rivoluzioni alle conferenze diplomatiche, dai campi da golf a quelli di sterminio, da Mussolini a Hitler, da Stalin a Mao, dagli anarchici al papa» avrebbe respirato «l’aria delle ideologie totalitarie senza esserne intossicato». Considerato esempio paradigmatico di «arcitaliano» e di «Strapaese» egli fu, in realtà, il meno italiano degli intellettuali del tempo, tanto da essere definito da Giuseppe Prezzolini «un vero scrittore europeo». Alla sua caratura internazionale è dedicato il bel volume curato da Maria Pia De Paulis, Curzio Malaparte e la cultura europea (Franco Cesati Editore, pagg. 524, euro 45) che raccoglie gli interventi pronunciati da oltre una ventina di studiosi al convegno internazionale organizzato a Parigi nel 2021 dall’Università Sorbonne Nouvelle nel quadro di una vera e propria Malaparte Renaissance in atto da qualche anno in Francia. Storici e letterati di più Paesi hanno proposto una rilettura della biografia e dell’opera malapartiane dalla quale emerge il fatto lo nota la De Paulis che la «dimensione europea» di Malaparte «è anche una condizione del suo spirito, una convinzione, un modo di essere e di riflettere sulle grandi questioni politiche e filosofiche». Il destino di Malaparte giornalista e scrittore, ma anche uomo pubblico che si trovò a sfiorare, sia pur tangenzialmente, le stanze del potere fu quello di testimone del Novecento: un testimone eccezionale, capace di cogliere, descrivere e interpretare con partecipazione e dolente visionarietà sintomi e manifestazioni di un forse irreversibile processo di decadenza europea. Anche se in Mamma marcia il libro che più drammaticamente e simbolicamente sottolinea tale processo a conclusione di un’ideale trilogia iniziata con Kaputt e proseguita con La pelle c’è, nel suo dialogo con Guy Tosi sull’Europa ridotta a macerie di fronte alla casa di Wolfgang Goethe, un senso, quasi, di speranza, una nota di pur macabro ottimismo, che sembra riscattarlo e che lo enuclea dal pessimismo funereo di quella cosiddetta «letteratura della crisi», particolarmente fiorente nei primi decenni del secolo XX, alla quale, peraltro, lui, Malaparte, non è affatto riconducibile: «È la nuova Europa che nasce dal cadavere della vecchia Europa morta dissi. I cadaveri di donna sepolti sotto queste macerie sono incinti, nasceranno figli dai cadaveri. L’Europa è ormai una mamma marcia dissi». E ancora: «Tutti i cadaveri sono gravidi dissi. Hanno il ventre pieno di feti mostruosi: basta il peso del nostro passo sulle macerie dell’Europa, per fare uscire dall’utero di questi cadaveri incinti i feti della gioventù.». In una intervista dell’autunno del 1949 egli dichiarò di poter scrivere solo di cose che aveva visto e vissuto. Era una dichiarazione sincera, anche se, naturalmente, il «visto» e il «vissuto» di Malaparte non corrispondono, sempre e forse anzi mai, alla realtà effettuale ma ne sono una trasposizione allegorica dove verità e fantasia, oggettività e trasfigurazione onirica si incontrano e si intrecciano in un ricamo incredibilmente ricco, mosso e variegato che si sviluppa tuttavia sotto l’insegna dell’imprevedibile o dell’improbabile. Il che spiega, per inciso, perché la vita e l’opera di Malaparte siano state caratterizzate da quelle tante oscillazioni e da quei tanti atteggiamenti che hanno finito per accreditarne l’immagine di cinico voltagabbana, di uomo delle contraddizioni, di persona priva di ideali, pronta a passare da una parte all’altra secondo le convenienze. Una immagine della quale, probabilmente, egli, da narcisista esteta qual era, non si curava troppo ma che poi, scoppiata la Seconda guerra mondiale e quando aveva già incontrato sul proprio cammino diverse ideologie e diverse incarnazioni di totalitarismo, dovette provocargli un certo fastidio. Quella di Malaparte fu una vita sviluppatasi all’insegna della contraddizione, spesso apparente, e di un carpe diem che era frutto del suo narcisismo e del suo snobismo ma che celava un’ansia genuina di superare le limitazioni del proprio tempo. Fu fascista e antifascista, ma ciò non implica che egli debba essere inserito, ipso facto, nella categoria dei camaleonti. Definito da Piero Gobetti il «più forte teorico del fascismo» e il «più spregiudicato scrittore tra i mussoliniani», aveva, proprio come Gobetti, una forte tempra di intransigentismo moralistico, temperato (o rinvigorito) da istintivo scetticismo e senso dell’ironia. E, ancora proprio come il suo amico Gobetti, finì per intravvedere in Mussolini il traditore della rivoluzione, l’uomo capace di piegarsi ai compromessi e obbedire alle leggi, spesso amorali, della politica. Il suo fascismo, teorizzato soprattutto in L’Europa vivente (1923) e sulle pagine del periodico La conquista dello Stato, rivelava qualche affinità con la rivoluzione russa. Comunismo e fascismo gli apparivano movimenti paralleli, ma profondamente diversi, riflettendo, l’uno, l’anima collettivistica russa e, l’altro, lo spirito individualista dei latini. Entrambi erano segni visibili di una vera e propria rivolta contro lo spirito di modernità, identificato con la civiltà nordica, il liberalismo, il libero arbitrio, la democrazia. Per lui il fenomeno rivoluzionario italiano avrebbe dovuto essere «antimoderno» e il valore e il significato storico del fascismo avrebbero dovuto essere rintracciati «in questa sua storicissima funzione di restauratore dell’antico ordine classico dei nostri valori nazionali». In sostanza il fascismo sarebbe stato «l’ultimo aspetto della Controriforma» e, al tempo stesso, una reazione contro lo spirito della modernità. L’antimodernismo di Malaparte si configurava come dottrina politica originale, espressione di una corrente speculativa alternativa all’idealismo gentiliano. Il suo fascismo degli anni Venti aveva pulsioni marxisteggianti e anarcoidi che spiegano il fascino che egli subì, in certi momenti, per l’Unione Sovietica e, nell’ultimo scorcio della sua esistenza, per la Cina di Mao. Ma sempre al di là e al di fuori delle ideologie. Cionondimeno egli non fu il prototipo dell’intellettuale fascista. Non ebbe un ruolo di rilievo all’interno del fascismo, fu ai margini del regime anche quando ricoprì incarichi di responsabilità in giornali importanti. Fu, però, per vivacità e profondità intellettuali, un uomo di statura europea, più di altri intellettuali dell’epoca rimasti provinciali e strapaesani. Lo si vide bene a partire dall’inizio degli anni Trenta, quando, dopo il brusco licenziamento dalla direzione di La Stampa e dopo il trasferimento in Francia, pubblicò opere come Technique du coup d’Etat (1930) e Le bonhomme Lénine (1932), che gli assicurarono e consolidarono il successo internazionale. Al di là dell’aspetto letterario quelle opere, e soprattutto quelle successive, chiarirono il suo atteggiamento nei confronti di tutti i totalitarismi e, in particolare, l’anti-hitlerismo e l’anti-nazismo divenuti presto una costante della sua pubblicistica. Utilizzando il paradosso e l’ironia, Malaparte mise alla gogna i difetti dello Stato totalitario, i suoi connotati sacrali di religione laica, nonché le tendenze autodivinizzanti dei dittatori. Deluso dal fascismo, lo fu anche dal post-fascismo e divenne, in certo senso, uno degli esponenti più significativi di quello che potrebbe essere definito l’anti-antifascismo nella presunzione che l’antifascismo non fosse altro che una forma rovesciata di fascismo. Tuttavia, al di là di tutto ciò e malgrado le sue contraddizioni, Malaparte fu un grande, efficace, inimitabile testimone e interprete della decadenza dell’Europa e della sua civiltà. Ed è questo, credo, il suo lascito principale.