la Repubblica, 5 maggio 2023
Calasso e il bestiario kafkiano
Lo zoo letterario che Franz Kafka allestì nel corso della vita fu relativamente vasto ma assai emblematico. Lo scrittore pensava spesso per metafore. Immaginò protagonisti dei suoi racconti la “scimmia”, lo “scarafaggio” i “topi”, i “cani”, la “talpa”. L’inaudita passione, tra zoofilia e zoofobia, è la mossa iniziale da cui muove L’animale della foresta diRoberto Calasso. A distanza di tanti anni si resta sorpresi non tanto per un ritorno a Kafka, (dopo che allo scrittore aveva dedicato K, un libro che sembrava fatto apposta per precipitare dentro l’universo opaco del Novecento), quanto dal ricamo sottile e privatissimo della trama e per i tratti sorprendenti con cui Calasso ha misurato la prossimità allo scrittore praghese.
Il bestiario kafkiano più che metafora della condizione umana rinvia alle radici stesse del popolo al quale apparteneva e al quale allude come “l’animalizzazione dell’ebreo”. Per questo ogni volta che Kafka si avvicinava al nucleo incandescente dell’identità, la sua scrittura precipitava al centro di un mondo labirintico, oscuro e senza uscite. Sapeva che la letteratura esige un prezzo alto da pagare. Soprattutto se confrontata con il destino di un popolo. Ed è il motivo per cui l’animale kafkiano riporta a sé i tratti tragici e stralunati della comunità estromessa.
Sul suo ebraismo sono state suggerite alcune strade percorribili. La cosa che qui interessa è che quel certo gusto per l’esegesi talmudica – cioè la capacità di adottare le idee alla lettera spingendole fino alle estreme conseguenze – si rispecchia segretamente nel testo di Calasso. La cui interrogazione sui racconti che chiudono l’esistenza di Kafka – Ricerche di un cane, Josefine la cantante, La tana – è un voluto calco narrativo con minime variazioni. Come se nel riprodurre la tessitura dei racconti Calasso lasci intuire il vero disegno esistenziale che la compone. Nella convinzione che in gioco ci sia il destino stesso dell’arte oltre che la propria e che nei tre racconti prende la forma della musica, del canto e del silenzio.
Proprio nel secondo dei tre racconti assistiamo al dissidio tra Josefine e il popolo dei topi. La sublime cantante pretenderebbe che la sua arte venga riconosciuta, ma i numerosi consimili non hanno orecchie adatte per ascoltarla. Secondo Calasso si tratta della descrizione più disperata che Kafka ci consegna, dove si dichiara l’insufficienza dell’arte, di qualsiasi arte. Perché assoluta e inaccessibile, l’arte si mostra incapace di rivelarsi autenticamente ai molti. Il suo dirigersi oltre il visibile, oltre il qui e ora della vita quotidiana, marca l’incolmabile distanza dal mondo. Distanza che si potrà fittiziamente annullare solo a patto che essa degradi verso l’indistinto e il conforme. Divenendo opinione. Dell’arte Kafka teme la spettacolarizzazione e constata che il popolo dei topi ama solo “fischiettarla”. Dopotutto, il comportamento di quella comunità capricciosa non è così diverso da quello della gente che si ammassa per visitare la gabbia del digiunatore, o da coloro che attendono sulla soglia del teatro Oklahoma. L’arte kafkiana è mossa da oscure inimicizie.
Non a caso, osserva Calasso, i suoi scritti sono segnati dalla presenza del Nemico. Non è dato conoscerne l’identità ma si può supporre che un tale predatore muti d’aspetto e vada a caccia in un mondo sempre più simile a una foresta. Il raccontoLa tana sembra attestarsi su questa immagine. Altrimenti perché edificare una costruzione se non per difendersi dai numerosi agguati?
In omaggio alle letture talmudiche Kafka considerò che solo in nome della realtà si potesse prescindere dalla realtà. Il mondo vero gli era incomprensibile. Ne aveva una conoscenza vaga. Di qui il ricorso alle metafore. Si dispose perciò affinché queste si sostituissero al mondo, fino a renderlo scrittura, immaginazione, potenza letteraria. Soltanto così avrebbe potuto combattere l’avversario più insidioso, quel nemico interiore che avrebbe potuto in ogni momento condannarlo al pronome io.
Calasso ha scritto L’animale della foresta negli ultimi mesidella propria vita. Si avverte la resa dei conti, il bisogno di riassumere i gesti importanti, i passaggi fondamentali distinti da un’impresa più unica che rara: cioè quell’Opus che – da La rovina di Kasch aLa Tavoletta dei Destini – si erge come fortezza inespugnabile. A un tempo remota e prossima. Una specie di “tana” impenetrabile, ossia “un altro mondo”, una metafisica implicita, che in lui divenne «un tentativo forse disperato di trovare unrifugio sicuro da pericoli onnipresenti». Ecco il sigillo, impresso, come fosse appunto la “tana” l’ultima metafora resa in omaggio a se stesso e allo scrittore che più di ogni altro fece della letteratura la più rischiosa tra le arti e la più vicina agli dèi. Si è sempre in qualche modo esposti alle insidie che provengono dal regno dell’opinione che detta e impone il ritmo della lingua più ovvia. Contro un tale avversario, oscuro e potente, lottò Kafka. E rileggendo Kafka, Calasso finì per leggere se stesso. La lingua salvata – per alludere a Canetti, autore a lui caro – fu l’ultimo baluardo che la mente cercò di difendere con l’infinita pazienza del costruttore di fortezze, la stessa che nel racconto La tana avrebbe provato ad adottare l’animale sconosciuto.
Può stupire che Calasso ritrovi se stesso nell’ultimo Kafka. Ma dopotutto, col passare degli anni i pensieri di Kafka si fecero più irregolari ed enigmatici. Filtrati dal bisogno di una “dottrina segreta”. Sovrastati da quelle letture talmudiche che incidevano ferocemente sullo stile cristallino provocando l’effetto stupefacente di un contrasto incandescente tra la forma e ciò che la forma esprimeva, tra il rigore della scrittura, sempre più scarna, e l’imperdonabile brutalità della vita.