Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  maggio 05 Venerdì calendario

I guai del giornalismo Usa

Tucker Carlson, il conduttore televisivo più seguito d’America, di estrema destra, con un debole per le teorie cospirative e per i suprematisti bianchi, cacciato dalla Fox News di Murdoch. Ben Smith, un giornalista progressista ma disincantato che ha cavalcato la rivoluzione dei nuovi media digitali, da Gawker all’Huffington Post, alla direzione di Buzzfeed, per poi ripiegare sugli «odiati» giornali tradizionali (New York Times), prima della nuova avventura del sito Semafor. E che ora con Traffic pubblica la dolorosa storia di un’illusione: un libro, come abbiamo scritto ieri su corriere.it, che esce proprio mentre la chiusura di Buzzfeed News, la crisi del gruppo Vox e i venti di bancarotta su Vice Media segnano il naufragio del progetto di sostituire la vecchia egemonia di giornali e tv con quella di nuovi media digitali capaci di crescere senza farsi schiacciare da Facebook e Google, divoratori del mercato pubblicitario. Un’illusione, appunto. Alimentata dal culto della viralità: il fattore che ha fatto inciampare due personaggi diversissimi come Tucker e Ben. La capacità di rendere un’informazione virale con ogni mezzo – circondandola con quiz curiosi o alimentando controversie – è stata per anni la scommessa di Ben Smith e del fondatore di Buzzfeed, Jonah Peretti, che era andato a studiare nel Media Lab del MIT di Boston il modo di rifondare l’informazione negli Usa. Attrazione virale per alimentare un enorme volume di traffico e conquistare, così, la poca pubblicità non assorbita di Facebook e Google. Di viralità conquistata con ogni mezzo è stato maestro Tucker Carlson, caduto non per il fallimento del suo modello di business giornalistico, ma per un successo che gli ha dato alla testa: ha cominciato a insolentire dirigenti e colleghi. Si sentiva invulnerabile ma quello che diceva fuorionda e scriveva nelle mail era registrato: quando è emerso che odiava Trump, da lui elogiato in trasmissione, che non credeva alle elezioni rubate da Biden e che parlava del suo pubblico come di gente in post menopausa, alla Fox non è rimasto che metterlo alla porta.
Diversissima la storia di Smith, ma anche lui ha coltivato il mito della viralità fino a diventarne prigioniero. Non ha salvato il business e ha diffuso un’idea pericolosa: le spezie usate per dare sapore all’informazione più importanti della realtà dei fatti.