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 2023  maggio 05 Venerdì calendario

Biografia di Fausto Coppi

È sabato pomeriggio e l’avvocato Franco Coppi stavolta non riceve a «casa sua», cioè in Cassazione. L’appuntamento è nel suo studio.
Nell’ascensore qualcuno ha scritto «Viva Lazio», se n’è accorto? «Figurarsi se un romanista come me non se ne accorge. Penso di far cambiare tutto, non basta cancellare la scritta per lavare l’offesa». Ride.
Ci ricorda la sua età?
«Ottantaquattro anni, nato a ottobre, Scorpione».
Ma lei è tipo da oroscopo?
«Eccerto! Solo che trovo inutile preoccuparsi prima di come andrà una giornata, e allora lo leggo il giorno dopo per sapere se ci ha azzeccato».
L’ultima baruffa con un magistrato?
«Una cosa recente. Un collega mi ha chiesto di affiancarlo in Cassazione per un processo che sembrava stra-perso. Quando ha cominciato a parlare, il presidente della sezione si è subito mostrato insofferente. Lo ha redarguito, gli ha detto che aveva già depositato 100 pagine. “Non vorrà ripetere tutto daccapo”, e sbuffato dichiarandosi seccato. Così il collega si è avvilito e in pratica ha rinunciato a parlare».
Ma poi è toccato a lei...
«Quando ho preso la parola mi ha detto: avvocato, io oggi ho 34 processi, la prego di fare in fretta. Gli ho risposto: beato lei che ne ha 34, io ne ho solo uno e non intendo rinunciare a una sola parola. Secondo me ha pensato: questo mi fa un esposto e alla fine sa cosa ha fatto? Ha annullato la sentenza con rinvio. Nei palazzi di giustizia succedono cose stravaganti...».
A quale aneddoto sta pensando?
«A una scenetta vissuta in Cassazione. Era un processo per reati sessuali. La presidente fa un appello alle parti; vi prego di usare toni soft, chiede, e di non impiegare parole che facciano riferimento a parti corporali. Mi sono chiesto: e cosa racconto se non posso parlare del corpo? Così quando è toccato a me ho detto: presidente, io mi adeguo, parlerò di problemi di dietro. C’è stato un momento di gelo, ho pensato: adesso mi accusa di oltraggio, e invece stava cercando di capire che cosa volessi dire, e quando l’ha capito ha esultato: bravo avvocato, bravo!».
Anche sugli avvocati ci sarebbe molto da dire...
«Vero. Non ci facciamo mancare nulla neanche noi. Le ho già raccontato del collega che fece un’arringa accorata contro la richiesta di ergastolo per il suo assistito?».
Quello che disse «il poveretto deve già sopportare di vivere senza i suoi genitori»?
«Proprio lui. Ricordo ancora bene la faccia del presidente quando lo interruppe (ride). Gli disse: avvocato, ma i genitori li ha ammazzati lui! E quello: vabbé, sempre orfano è. Inarrivabile...».
Ora un argomento serio. Qual è il problema più grave della giustizia, secondo lei?
«Fosse soltanto uno... Certamente la cosa che più salta agli occhi è la lunghezza abnorme dei processi; 7-9 anni di media è un tempo mostruoso. So che diventando vecchi si diventa laudator temporis acti ma quand’ero giovane andavo in udienza e sapevo che il processo avrebbe avuto una durata accettabile. Oggi capita che il pubblico ministero discuta a gennaio e la difesa a dicembre. Fissano udienze dopo un anno... E poi ho la sensazione di una certa trasandatezza, nel sistema Giustizia, come se ci fossimo tutti quanti un po’ abbassati di livello. E sa un’altra cosa?».
Cosa?
«È inutile parlare di separazione delle carriere. L’unica separazione utile è fra persone capaci e intelligenti e chi non lo è. Io penso che un modo per velocizzare tutto potrebbe essere una cosa che farà storcere il naso a molti colleghi, lo so già».
Che sarebbe?
«Restituire al giudice del dibattimento la conoscenza degli atti. Oggi esiste quest’idea sacra che il giudice debba arrivare vergine al dibattimento. Ma se uno è perbene e onesto intellettualmente può leggere gli atti e farsi un’idea prima del processo e poi, in aula, può anche cambiarla sentendo le parti».
Il caso Avetrana è sempre il suo cruccio? Ha ancora contatti con Sabrina Misseri?
«Prima ci scrivevamo una lettera a settimana, adesso all’improvviso tace. So che è in crisi e questo mi amareggia e mi preoccupa. Sono convintissimo dell’innocenza sua e di sua madre. Abbiamo fatto ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo e abbiamo superato il primo controllo di ammissibilità. Ma i tempi sono lunghi. Lascerò il caso in eredità al mio studio...».
Non le crede nessuno se dice che vuole ritirarsi.
«Non è quello. Io mi emoziono ancora come il primo giorno all’idea che uno bussi al mio studio per chiedermi aiuto. Ma le ho già detto quanti anni ho... Faccia un po’ lei».
Sta parlando della morte?
«Beh, l’età non aiuta a tenere lontano il pensiero. Vero è che Andreotti sosteneva che i processi allungano la vita...».
In che senso?
«Diceva che i magistrati contavano sul fatto che lui morisse prima della sentenza, così avrebbero pronunciato estinto il reato per morte del reo. E allora lui se n’era fatto una questione di puntiglio: non muoio finché non finisce il processo, e così è stato».
E il cane che le regalò l’avvocato Ghedini?
«Povero Ghedini, era una persona perbene ed era diventato un amico; lui voleva molto bene a Berlusconi. Il suo cane mi riempie le giornate. Gli parlo, so che mi capisce. A Villa Borghese siamo diventati molto popolari».
Vi fermano per autografi?
«Non proprio. Ma ci conoscono, ci fermano. L’altro giorno un tizio mi ha detto: avvoca’, ho menato mi’ moglie, 20 giorni de prognosi salvo complicazioni. È grave? E io: beh, ha una certa gravità. Risposta: se me serve posso passà? Non l’ho più visto... La moglie l’avrà perdonato».
Se tornasse indietro rifarebbe l’avvocato?
«Io ho fatto l’avvocato per sbaglio. Ho scelto il penale perché mi sembrava meno avvocatura, non c’era da impicciarsi di società, cambiali e cose del genere. Ho cominciato 60 anni fa e all’epoca il cuore del processo era la Corte d’Assise, cioè l’uomo, con le sue passioni e i suoi sentimenti».
Ma non ha risposto: rifarebbe l’avvocato?
«Forse farei il pittore, che è la mia vecchia passione. Anche se devo dire che se veramente avessi avuto dentro il fuoco dell’arte me ne sarei fregato dell’avvocatura. Mentre studiavo Giurisprudenza andavo all’accademia e vivevo in mezzo ad aspiranti pittori come me, e le assicuro che una cena fra pittori mancati è esaltante».
Vi sentivate intellettuali?
«Più che altro ci divertivamo. In una serata tu potevi distruggere nientemeno che Michelangelo: “appena passabile come scultore eh... ma come pittore non me ne parlare”. Salvavi Raffaello, magari. Ma Picasso: “chi è Picasso? Chi lo conosce?” Forse non era la mia strada... Non so più chi ha detto che passiamo tutta la vita a diventare quello che siamo, io sono un avvocato. E va bene così».