La Stampa, 4 maggio 2023
Facile dar colpa alle nutrie
Dopo essercela presa con gli orsi e in attesa di processare i lupi, ecco pronto un altro imputato vivente non umano, indicato come responsabile dell’alluvione che ha appena colpito l’Emilia Romagna: la nutria. Purtroppo contiamo anche vittime, e per prima cosa il pensiero va a loro, ma non possiamo sottrarci a una riflessione, l’ennesima, sul nostro rapporto col mondo “naturale”, un rapporto che abbiamo completamente scardinato in un assalto insensato all’ambiente, favorito da un apparato tecnologico senza precedenti. Nell’illusione che tanto toccherà a qualcun altro pagare il conto. Un assalto che ha bisogno di alibi, perché sono sempre meno i dubbi che le responsabilità siano tutte nostre. Cominciamo dal meteo e, di conseguenza, dal clima.Come è possibile, ci si domanda, che dopo mesi di siccità arrivino i “flash flood”, le alluvioni improvvise (eviterei il termine “bombe d’acqua”, ma di quello si tratta)? La vera domanda, però, non è questa, ma come è possibile che ci colgano impreparati? Bastava aver letto l’ultimo rapporto di quei catastrofisti dell’Ipcc, che recita (testuale): «Frequenza e intensità degli eventi meteorologici a carattere violento sono aumentate negli ultimi 70 anni e il responsabile maggiore è l’uomo» (per essere sinceri, aggiunge un «probably» che sa più di compromesso, visto che nel rapporto si indicano percentuali del 95% di responsabilità dei sapiens). Che non si siano informati i cittadini, passi, stante anche lo scarso rilievo dato ai rapporti scientifici seri, ma che non lo abbiano fatto gli amministratori è imperdonabile. Ma magari hanno pensato, come al solito, che non sarebbe toccato al loro territorio, o magari non a stretto giro: esattamente quanto hanno fatto, per esempio, a Ischia, continuando a permettere l’impermissibile. Perché un fatto è sicuro, quando prevedi precipitazioni violente, non guardare in cielo, guarda a terra. Soprattutto nel nostro Paese, dove troverai tutto fuorché quel naturale reticolo idrografico che, normalmente, trattiene l’acqua sui rilievi e non la fa stazionare in pianura.Siccità e piogge violente sono due facce della stessa medaglia, quella del cambiamento climatico che sta portando a un tempo meteorologico estremo. Un fatto che dovrebbe essere ormai chiaro per tutti, nonostante i tentativi continui di approcciare la narrazione del clima che è sempre cambiato e dei sapiens che sarebbero irrilevanti: ogni alluvione, ogni evento siccitoso estremo, ogni ondata di calore sono figli di ciascuno dei barili di petrolio e dei metri cubi di gas che continuiamo a bruciare. E delle corporation che su questo continuano a lucrare extra profitti esorbitanti sulla nostra salute, pur essendo perfettamente a conoscenza dei fatti da decenni. E dei governi, quasi tutti, che continuano a sovvenzionare i combustibili fossili con denari pubblici. Poi c’è il territorio.Non abbiamo ancora imparato che più lasci in pace i fiumi, più li liberi dalla sclerotizzazione del cemento, meno occupi le aree golenali, più fai un passo indietro, meno vittime e danni subisci. E, invece, noi no: e dalli a trasformare i fiumi in canali, a cementificare gli alvei, a prelevare ghiaie, a impiantare dighe che dovrebbero laminare le piene e non riescono quasi mai. E, quando arriva il disastro, ecco il tradizionale repertorio di colpevoli, nell’ordine: l’eccezionalità dell’evento, la mancanza di opere “di protezione”, gli ambientalisti che impediscono di ripulire i corsi d’acqua e, buone ultime, ma in crescita, le nutrie. A causare il disastro non sarebbe quindi la dissennata cementificazione del territorio, la continua costruzione di infrastrutture che divorano i naturali bacini di espansione dei fiumi, ma queste bestiole, assolutamente non aggressive e non portatrici delle malattie dei topi, verso cui si nutre un’ostilità inspiegabile, forse perché assomigliano ai ratti (ma non sono roditori carnivori).Le nutrie provengono dai grandi bacini fluviali sudamericani, da cui furono importati negli anni Cinquanta del XX secolo, soprattutto nel Polesine, quando la moda imponeva, anche alle donne meno abbienti, una pelliccia che potesse non farle sfigurare di fronte ai costosi visoni (lo chiamavano, pomposamente, Rat Musquet, o castorino). Ma le mode passano e, per liberarsene, gli allevatori non trovarono di meglio che rilasciare le nutrie in fiumi e paludi nostrane. Non considerandone la straordinaria capacità riproduttiva e l’adattabilità. E, nello stesso tempo, sterminandone i potenziali predatori, lupi, ma soprattutto volpi. È vero, le nutrie scavano gallerie e tane negli argini fluviali (come i conigli selvatici) e se ne trovano molte nelle zone di rottura in caso di piogge eccezionali, ma ce ne sono altrettante dove l’argine resta integro e resta tutto da dimostrare il rapporto di causalità. Nel caso del Brenta, uno di quelli studiati, fanno sicuramente più danni i passaggi dei burchielli che non le tane. E, comunque, sono 70 anni che scavano, ce ne accorgiamo solo ora? E a disporre reti di protezione salva-argini, non ci abbiamo proprio pensato? E a catture mirate con trappole e delocalizzazioni? E siamo sicuri che il fenomeno sia più rilevante della bulimia costruttiva di un Paese che divora due metri quadri al secondo di territorio “naturale”? Certo che no, ma vuoi mettere, quando hai il baffuto colpevole già nel mirino. —