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 2023  maggio 04 Giovedì calendario

Biografia di Al Bano

ldo Cazzullo
A l Bano che nome è?
«Mio padre Carmelo era sul fronte albanese. Una granata centrò in pieno due suoi compagni e li spappolò. Lui si finse malato...».
Come fece?
«Surriscaldava una pietra, la metteva sotto l’ascella, la lasciava cadere, e gli trovavano il febbrone. Riusciva a sputare sangue, mai capito come. Così lo mandarono nelle retrovie. Gli albanesi gli aprivano le loro case, lo facevano dormire nella paglia, lo sfamavano con il granturco. Poi tornò a Cellino in licenza».
E cosa accadde?
«Fece la fuitina. E fui concepito io. Mia mamma Jolanda aveva appena diciotto anni. Un amore immenso. Papà dovette tornare al fronte. Era analfabeta, imparò a scrivere per scrivere a lei: gli altri le lettere le dettavano, ma papà non voleva affidare i suoi sentimenti a un estraneo. E mamma d’inverno dormiva senza coperte per provare lo stesso freddo che provava lui».
Cosa scriveva suo padre?
«Gli albanesi mi hanno salvato e se avremo una femminuccia la chiamerai Alba, se un maschietto Albano. Vedrai che sarà la nostra fortuna».
Però si scrive Al Bano, vero?
«Me lo staccarono quando entrai nel clan di Celentano. All’americana. E così è rimasto».
Suo padre fu fatto prigioniero dopo l’8 settembre.
«Come altri seicentomila soldati italiani preferì restare nei lager, a Wletzar, piuttosto che schierarsi con Hitler. Partì che era un omone; tornò che pesava 42 chili. Una volta mi accompagnò in tournée in Germania, nel camerino c’erano wurstel, formaggi, birra. Mi chiese: quanto ti costa tutta ’sta roba? Niente papà, è nel contratto. “E a me i tedeschi mi hanno pestato a sangue, con i calci dei fucili, per due scorze di patate che avevo raccolto!” (Al Bano sorride con gli occhi pieni di lacrime)».
Qual è il suo primo ricordo?
«Mio padre che torna a casa dalla prigionia. Mamma aveva avuto un sogno premonitore: san Marco, il patrono di Cellino, le disse che papà sarebbe tornato il giorno della sua festa. Domenica 29 luglio 1945, festa grande di San Marco, mio padre tornò. Ricordo un profumo strano, che sentivo per la prima volta. Lui estrasse una tavoletta scura: “Sai cos’è questo? Il cioccolato”. Gli americani lo regalavano ai prigionieri liberati, e lui ne aveva messo da parte un poco per il suo primogenito, che non aveva mai visto. E aveva altri due regali».
Quali?
«Un clarinetto e una piccola fisarmonica. I prigionieri a volte saccheggiavano le case dei tedeschi: denaro, gioielli. Lui aveva preso due strumenti musicali per me».
Quando comincia la musica?
«Il mio idolo era Modugno, che è cresciuto nel paese qui accanto, San Pietro Vernotico. Cantavo sempre, anche nei campi; e nei campi andavo già a sei anni. Papà mi ha insegnato a raccogliere le olive, curare la vite, selezionare le infiorescenze dell’uva. Lavoravo e studiavo. Ma al secondo anno di magistrale mi bocciarono».
Come mai?
«Non sopportavo i professori. Sapevo solo disegnare. Feci un disegno per la ragazza di cui ero innamorato, Fiorella: lei prese 8, io 4».
Fu la sua prima volta?
«Con Fiorella non ci fu neppure un bacio. Ma quando mi mancavano mille lire per comprare la prima chitarra, le chiesi a lei, con una lettera. Arrivò una busta: dentro c’erano mille lire. Avrei potuto procurarmele in altro modo, ma volevo vedere se si ricordava di me. Così le dedicai la mia prima canzone. E battezzai sua figlia».
Prima era partito per Milano.
«La valigia era davvero di cartone: due pantaloni, una bottiglia d’olio, qualche frisella. Era la seconda volta che andavo via da Cellino».
La prima dove era stato?
«A San Giovanni Rotondo, da padre Pio: mi confessò, ricordo il profumo di rose. Mia madre era contraria: “Le milanesi sono tutte zoccole!”. Magari fosse stato vero: non mi guardava nessuna. Andai a fare l’imbianchino. Dormivo in cantiere, al Giambellino, in una stanza al pianterreno, alla luce di quattro candele. Ma non mi pagavano. Ero rimasto con mille lire. Andai alla Standa, a comprare sette michette e la carne in scatola. Vidi la Simmenthal e le lattine con la scritta “Ananas”. Pensai a una sottomarca. Le aprii: “Mamma mia quant’è gialla la carne a Milano!”. Ho mangiato pane e ananas per una settimana».
E cambiò lavoro.
«Al ristorante Ferrario, vicino a piazza Duomo, cercavano un aiuto cuoco. Pensai che fosse quello che metteva la legna. Mi presentai. “Ma tu sai cucinare?”. “Certo, cosa ci vuole a mettere un po’ di legna?”. Mi misero a distribuire i volantini fuori dal ristorante e poi a fare le pulizie. Imparai a preparare le pizze, il caffè...».
Com’era Milano nel 1960?
«Piena di poesia. Ricordo un uomo innamorato di una prostituta: veniva al bar, ordinava un tè, poi un amaro; aspettava che lei finisse di lavorare. Poi andavano via a braccetto, felici. Un altro tizio mi disse: quanto guadagni al mese? Venticinquemila lire? Te li do ogni giorno, se mi consegni queste buste. Ma papà mi aveva messo sull’avviso: la droga, mai».
Non l’ha proprio mai provata?
«Aprivo i concerti dei Rolling Stones, e dai loro camerini veniva un odore misterioso, mai sentito prima... Non era cioccolato: era marijuana. L’ho fumata una volta sola. Mi avevano detto che pure Fellini la usava per ispirarsi. Passai la giornata più strana della mia vita: non ero padrone di me stesso, scrivevo in verticale anziché in orizzontale... Mi dissi: mai più».
Fino a quando fece il cameriere?
«Avevo due colleghi. Finché mi chiamavano terrone, pazienza. Ma un giorno mi indicarono mentre salivo le scale trafelato, pieno di piatti: “Per fortuna abbiamo lo schiavetto...”. Non ci ho più visto. Li ho chiusi in una stanza e li ho menati. E ho cambiato ristorante».
Dove andò?
«Al Dollaro. Si chiamava così perché si mangiava a volontà pagando in lire l’equivalente di un dollaro: il primo “all you can eat”. Ma litigai pure lì. Il figlio del padrone amava una ragazza, che però preferiva me. Lo sentii sibilare: “Questi terroni ci portano via le donne...”. Così me ne andai in fabbrica».
Dove?
«Alla Innocenti. Catena di montaggio. Lavoravo e per resistere cantavo tutto il giorno. Mi dicevano: “Terrone, piantala!”. E io: goditela finché è gratis, perché tra poco per ascoltare la mia musica dovrai pagare».
Come arrivò nel Clan?
«Risposi a un annuncio, superai il provino. La fortuna fu che nel 1965, finito il boom, all’Innocenti ci misero in cassa integrazione: il mattino al lavoro, pomeriggio libero. Così ogni giorno potevo andare al Clan. Esordii alle selezioni per Sanremo».
Come andò?
«Fuori dall’Ariston c’era un signore piccolo e villoso, in mano un grande cappello, con cui chiedeva l’elemosina. Me lo ritrovai in gara. Vinse clamorosamente. Era Lucio Dalla».
E Celentano com’era?
«Io parlavo con suo fratello Sandro, Adriano non osavo guardarlo in faccia, quando arrivava mi nascondevo. Sapevo che era di origine pugliese, ma ero troppo timido. Certo, ci restavo male se scrivevo una canzone e la facevano cantare a un altro. Quando ebbi successo mi offrirono le copertine purché attaccassi Adriano. Rifiutai. Gli sarò grato per sempre. Un giorno mi ritrovai nella stessa stanza con Mogol, e non ci dicemmo una parola. Mi stava studiando».
Il successo arrivò con «Nel sole»: oltre un milione di copie.
«Le ragazze cominciarono a inseguirmi, a Rimini ne trovai una in stanza, nascosta sotto il letto. Con i primi soldi feci salire a Milano i miei genitori. Papà era contrarissimo: “Come faccio con il mulo? Mi è affezionato...”. “Vendilo!”. Così gli diedi otto milioni per comprare il trattore e un terreno. Ma a Milano don Carmelo Carrisi si trovò male».
Perché?
«Si muoveva come al paese. Per strada diceva buongiorno a tutti, e nessuno gli rispondeva. Alla Rinascente trattava sul prezzo, come al mercato di Cellino, e lo mandavano via. Sul tram chiedeva al bigliettaio: “Quanto costa il biglietto? Quaranta lire? Dai, facciamo trenta”. Il bigliettaio lo faceva scendere. Dopo due settimane tornò qui in Puglia».
«Nel sole» divenne anche un film.
«C’erano Loretta Goggi, Montesano, Nino Taranto, Franco e Ciccio: due attori straordinari. Ciccio ebbe la consacrazione con Fellini, e Franco un po’ ci soffriva. Lo processarono per mafia, e lui si difese dicendo: “Noi artisti incontriamo tutti. Non sappiamo chi abbiamo di fronte. Io non sono mio!”».
E sul set c’era Romina Power.
«Portava la minigonna; e io non avevo mai visto una minigonna in vita mia. Era figlia di due star di Hollywood, ma nelle pause delle riprese faceva la maglia. Gli ultimi tre giorni di lavorazione ci siamo amati. Mi pareva di toccare il cielo. Poi lei mi respinse. Telefonavo a casa e rispondeva facendo l’accento pugliese: “Sono Antonietta, Romina è uscita”. Cioè un’americana voleva fare fesso me. Così la lasciai perdere. Finché un giorno in albergo a Roma il portiere mi disse: “Al Bano, ha chiamato Romina Power per lei”».
Emigrato a Milano ho lavorato anche alla Innocenti, e per resistere alla catena di montaggio cantavo tutto il giorno Mi dicevano: «Terrone, piantala!». Poi cominciai a frequentare il Clan: ad Adriano Celentano sarò per sempre grato
Diventaste la coppia più famosa d’Italia.
«Nell’estate del 1970 ero in Grecia. Cantai Il ragazzo che sorride di Theodorakis sotto l’Acropoli, davanti a 90 mila giovani che mi seguivano in coro. C’erano i colonnelli, Theodorakis era agli arresti domiciliari, il disco si vendeva di nascosto dentro una copertina su cui era scritto O sole mio; e poi dicono che sono di destra... Il giorno dopo, nelle onde dell’Egeo, Romina mi disse: sono incinta. Così decidemmo di sposarci».
Perché solo allora?
«Perché le americane avevano il divorzio facile; e io non volevo divorziare. Ci promettemmo di non dirlo a nessuno; ma un impresario, temo per denaro, fece la spia. Il 26 luglio a Cellino fuori dalla chiesa c’erano trentamila persone. Linda Christian, la mamma di Romina, seguì la cerimonia dal tetto».
Lei non è di destra?
«Ai tempi di Berlinguer votavo comunista».
Al Bano comunista vale un articolo.
«Ho sempre scelto la persona. Ho creduto in Berlusconi: hanno tentato di ostacolarlo in tutti i modi, e alla fine si è infilato da solo nella trappola che si era costruito, quella delle donne. Ora trovo interessante la Meloni. Ma mio padre, oltre che dalla droga, mi aveva messo in guardia dalla politica».
Cosa le aveva detto?
«Che i politici ti usano e ti abbandonano. Negli anni 70 non riconoscevo più l’Italia. Il terrorismo, le bombe sui treni. Un clima di intimidazione. De Gregori, un artista che stimo moltissimo, processato al Palalido. Una volta a Torino per strada portavo una sciarpa rossa, uno mi fa: “Finalmente ti sei emancipato”. Gli rispondo male, quello si fa sotto, e quand’è così meglio colpire per primi: gli tirai un cazzotto. E andai in Spagna, nonostante Gianni Minà».
Cosa c’entra Minà?
«Mi faceva un po’ da addetto stampa. E mi diceva: in Spagna no, che sono tutti fascisti! Scoprii invece un Paese meraviglioso, dove sono tuttora molto amato. E poi l’America Latina. La Francia, la Germania».
E la Russia.
«Nel 1986 tenni diciotto concerti a Mosca e diciotto a San Pietroburgo, che si chiamava ancora Leningrado. Una sera arriva un dirigente del Kgb, gentilissimo, quasi intimidito. Mi porge la mano e dice: “Sono un suo grande fan, conosco tutte le sue canzoni. Mi chiamo Vladimir Vladimirovic Putin”».
Diventaste amici?
«Suonai per Eltsin e per lui, quando era primo ministro. Solo per lui, quando divenne presidente. Ma ora non lo farei più. Mi ha deluso. Non doveva scatenare la guerra».
È giusto mandare le armi all’Ucraina?
«È inevitabile: alle armi si risponde con le armi. A me, però, non piace. Si dovrebbe fare di più per portare Putin e Zelensky al tavolo della trattativa».
Nel 1984 lei e Romina vincete Sanremo con «Ci sarà».
«Dovevamo vincerne altri; invece arrivavamo sempre secondi o terzi o anche settimi. Non eravamo abbastanza “impegnati”. L’invidia genera nemici. Mettevano in giro voci false, tipo che non volevo suonare in Italia».
È vero che querelò Arbore e D’Agostino?
«Ora abbiamo fatto pace, ma D’Agostino provai proprio a menarlo, lo aggredii davanti ai Ricchi e Poveri, allibiti... In un libro, Il peggio di Novella 2000, scrisse che avevo rinchiuso Romina in una masseria. Era vero il contrario. Io a Cellino non volevo tornare. È stata lei a farmi riscoprire il mare, la terra».
Fu la scomparsa della vostra primogenita, Ylenia, a far finire il matrimonio?
«No. Da tempo lo sguardo di Romina non era più quello».
Cos’è accaduto a Ylenia?
«Era una ragazza straordinaria. Studiava al King’s College di Londra. Parlava inglese, spagnolo, francese, portoghese. Venne a Mosca con noi e imparò un po’ di russo, la sera Romina e io andavamo a dormire e lei scendeva sulla Piazza Rossa a vedere il cambio della guardia al mausoleo di Lenin. Poi ci accompagnò negli Usa, a girare un docufilm, l’America perduta. Andammo da Los Angeles a New Orleans. E lì fece l’incontro fatale».
Quale?
«Gli homeless. Gli artisti di strada. Ricordo un nero, si chiamava Masakela. Una sera la compagnia andò al cinema, ma io rimasi con Ylenia perché avevo notato qualcosa di strano. A un tratto cominciò a correre, e io dietro, lei gridava “fermate quell’uomo vuole farmi del male”, e quell’uomo ero io, gridavo “lasciatemi, è un problema di droga”. Mi seminò, la ritrovai il mattino alle 8. A sua madre disse che aveva rischiato la vita sulle acque del Mississippi».
E poi?
«Andammo a Venice a trovare la zia di Romina, Anne, la sorella di Tyrone Power: una pittrice di animo gentile. Sembrava tornata la pace. Al ritorno Ylenia mi dice: papà, ho deciso di scrivere un libro, e per farlo devo andare in Belize, la patria degli homeless. Dissi: va bene, ma prima ti devi laureare, manca poco... Invece andò in Belize, visse in una capanna, un uomo la minacciò, lei si salvò prendendo in braccio un bambino. Così tornò a New Orleans. Diceva che non voleva frequentare gente di plastica».
E nella notte del Capodanno 1994 scomparve.
«Ho ricostruito quella notte ora per ora. Ho parlato con i testimoni. Ho incontrato Masakela, che era stato pure in galera, ma negava di avere colpe. Ho interrogato l’ultima persona che l’ha vista, il guardiano del porto. Era seduta in riva al fiume, lui la avvisò: non puoi stare qui. Ma Ylenia non se ne andava. Il guardiano insistette, allora lei gli disse “io appartengo alle acque”, e si tuffò nel fiume, nuotando a farfalla. Lì capii che il guardiano stava raccontando la verità, perché Ylenia diceva quella frase da bambina prima di tuffarsi, e nuotava a farfalla. Ma il Mississippi non perdona. Romina non l’ha mai voluto accettare. Ma è andata così».
Ora lei sta ancora con Loredana Lecciso?
(La risposta viene da Loredana Lecciso, che in quel momento entra nella stanza: «Al Bano vieni, c’è nostra figlia in tv!». In effetti su Rai2 Jasmine Carrisi sta mostrando un video con il padre che ha fatto due milioni di visualizzazioni su TikTok in un giorno).
Con Loredana come vi siete conosciuti?
«Fuori da scuola, a Lecce. Io portavo le mie figlie Cristel e Romina junior, lei la sua primogenita, Brigitta. Loredana mi piaceva, ma la trovavo strana: prima mi sorrideva, cinque minuti dopo mi ignorava... Poi capii che erano due: l’altra era la gemella, Raffaella Lecciso, che aveva pure lei una figlia nella stessa scuola».
Lei crede sempre che Dio esista?
«Non è che credo; lo so. L’ho sentito molte volte. Così come ho sentito il diavolo».
Il diavolo?
«Dopo la scomparsa di Ylenia e la separazione con Romina, sono stato da solo per nove anni. Il dolore era terribile. Pensavo che Dio mi avesse abbandonato. E con il dolore cresceva una voce che diceva: “Al Bano eliminati. Al Bano falla finita”».
Ha pensato al suicidio?
«Sì. Ma poi ho capito che era la voce del demonio. E ho sentito anche la presenza di Dio. Ho provato una pace profonda. Mi sono detto: chi sei tu per giudicare Dio? Ricordati che anche Lui ha perso un figlio».
Come immagina l’Aldilà?
«Non oso pensarlo. Spero sia il luogo in cui ogni pena sarà consolata, ogni cosa troverà senso. Spero che il Signore mi accoglierà tra le sue braccia. Quando lavoravo nei campi c’era una cappella votiva diroccata; giurai: se avrò successo, la restaurerò. Ora al posto di quella cappella c’è una chiesa».
Se è per questo, don Verzé mi disse che lei era uno dei più grandi benefattori dell’ospedale San Raffaele.
«La beneficenza si fa, non si dice. Ho avuto dei segni. Quando incontrai madre Teresa di Calcutta, mi parve di rivedere mia madre: stesso volto olivastro, stesse rughe. Pioveva; un raggio di sole squarciò le nubi, le colpì il viso e la seguì nella camminata».
Come trova Papa Francesco?
«Straordinario. Ma il mio Papa fu Wojtyla, per cui ho suonato sette volte».
Cosa pensa di quel che ha detto il fratello di Emanuela Orlandi?
«Nessuno come me può comprendere la sofferenza del familiare di una ragazza scomparsa. Ma non deve dire queste cose di Giovanni Paolo II. Se avesse avuto una debolezza, i suoi nemici l’avrebbero sfruttata. Ricordiamoci che fu il primo Papa a gridare contro la mafia».
Lei ebbe come nemico Michael Jackson.
«Mi copiò una canzone. Mio figlio Yari mi avvisò: papà, Will you be there è identica ai tuoi Cigni di Balaka! Finimmo in tribunale. Ci accordammo per un grande concerto di beneficenza all’Arena. Aveva già pagato le spese, quando morì. Al Bano & Michael Jackson: è il mio grande rimpianto».