la Repubblica, 4 maggio 2023
Dickens e la nebbia di Londra
Paradosso dei tempi. Oggi Londra è una città all’avanguardia ecologica, il sindaco Sadiq Khan ha annunciato che entro il 2027 sarà praticamente chiusa ai veicoli non elettrici o inquinanti, e in centro già oggi non si può andare a più di 20 miglia all’ora per limitare al massimo le emissioni per i residenti. Eppure, solo due secoli fa, la capitale britannica era la città più inquinata, caliginosa e fosca del mondo. Del resto era anche la più grande, con i suoi 1,1 milioni di abitanti nel 1800, poi esplosi a 2,6 milioni nel 1851.«Londra? Una città in una nuvola», la definisce Charles Dickens in Martin Chuzzlewit nel 1843. O “un grande vapore”, in David Copperfield.
Non sono citazioni a caso, e nemmeno a effetto. Perché il leggendario scrittore inglese ha spesso intriso di inquinamento e aria irrespirabile la Londra vittoriana di quasi tutte le sue straordinarie opere. Non solo come stigia ambientazione, in un’allegoria della miseria e della sofferenza, nella città delle miniere, delle fabbriche, degli spazzacamini e dei bambini poveri e sfruttati. Ma anche come metafora di personaggi o comportamenti tetri. Dunque, non perdete la piccola ma illuminante mostra “A Great and Dirty City: Dickens and the London Fog”, ovvero “Una città grande e sporca: Dickens e la nebbia di Londra”, fino al 22 ottobre al Charles Dickens Museum. Siamo nella stessa e ora candida casa georgiana di Bloomsbury. Dove lo scrittore, allora giovane e semisconosciuto, visse con la moglie Catherine e il primo dei suoi 10 figli, Charles Dickens Jr, dal 1837. Qui, su tre piani di angusti soffitti e scalinate, c’è tutto il piccolo mondo antico di Dickens: il letto, le ceramiche, manoscritti originali, la scrivania della sua ultima casa a Gad’s Hill dove forgiò Grandi speranze, Il nostro comune amico e l’incompleto Mistero di Edwin Drood.
Dickens trasloca da qui, dal numero 48 di Doughty Street, tre anni dopo. Ma nel frattempo è diventato una star con la sua letteratura seriale, Il Circolo Pickwick, Le avventure di Oliver Twist e Nicholas Nickleby.Al piano terra, c’è la buca del carbone, per evitare di sporcare casa. Perché nel XIX secolo, oltre a fabbriche e trasporti, questo combustibile fossile era indispensabile pure in famiglia: per cucinare, riscaldarsi, o accendere quel camino che diffonde affetto nelle opere di Dickens, come per la famiglia Cratchit in Canto di Natale, ma le cui fiamme accendono anche la cattiveria di Scrooge. Il risultato dell’abuso di carbone è però un’aria avvelenata e irrespirabile, in città e dentro casa, dove le persone proteggono gli oggetti più preziosi sotto campane di vetro. Una piaga non solo a causa della rivoluzione industriale, ma proprio perché Londra, per esempio rispetto a Manchester, ha una popolazione mostruosa.
Eppure, all’epoca c’è chi considera positivamente l’opprimente bruma di Londra. Per molti cittadini, quella nebbia “pea-soupers”, con riflessi verdi e talvolta scarlatti, è qualcosa alla moda, un’orgogliosa attrazione. O comunque una bellezza fatale, come per il pittore impressionista francese Claude Monet. Che viene spesso a dipingere proprio la nebbia della capitale britannica e che una volta scrive: «Senza, Londra non sarebbe così bella. È la nebbia che le regala questa maestosità». Non per Dickens. Nato sulla Manica a Portsmouth, temeva ed esecrava quella torbida minaccia di Londra. Di giorno, quando calavano le tenebre a causa della congestione atmosferica, molti utilizzavano stracci a mo’ di mascherine. Come dimenticare l’annerita Coketown dell’industriale Preston, che in questa mostra ascoltiamo nell’inizio di Tempi Difficili di Dickens. O gli appestati slum lungo il fiume di Oliver Twist, il traboccante “fiume inquinato” che David Copperfield e Peggotty costeggiano a Westminster, e la “babilonia di ciminiere” e polveri di Casa Desolata, dove la “nebbia ovunque” di Lady Deadlock incarna malattia e smarrimento. Del resto, quel capolavoro del 1852 inizia proprio così: con «il fumo nero che si posa sulle case dalle ciminiere», «fiocchi di fuliggine grossi quanto quelli di neve». Insomma, «un lutto per la morte del sole».
La mostra ripercorre, attraverso la visione e il commento di opere e scritti originali di Dickens ma anche di giornali dell’epoca, questa lurida fiera della contaminazione. Per esempio, in un’edizione del 1875 di Il nostro comune amico ci sono i disegni delle sponde del Tamigi invischiate di inquinamento, in Martin Chuzzlewit i marciapiedi sono ricoperti da una «crosta di una torta al petrolio» e i londinesi vengono descritti come anime in pena nella nube tossica della città, come è spesso avvolto dalla coltre Daniel Quilp, il perfido nano de La bottega dell’antiquario.
«Londra è un posto nauseabondo, davvero lo credo», confessa Dickens a un amico nel 1851, «ogni volta che torno dalla campagna, mi chiedo: che ci faccio qui?». L’anno dopo, Piccadilly Circus viene avvolta dalla “Great Fog”. Certo, senza questa “tettoia” di veleni, come la chiamava lui, forse Dickens non avrebbe mai scritto questi capolavori. Eppure, nonostante la sua gigantesca fama, in pochi lo ascoltarono. Per tutto il XIX secolo, anche per la negligenza dei cittadini, non si agisce davvero contro il “fumo di Londra”. Almeno fino alla legge “Clean Air Act”, che nel 1956 impone a molti l’addio al carbone e finalmente dirada la nebbia della capitale. Here comes the sun, canterebbero i Beatles. Ottantasei anni dopo la morte di Charles Dickens.