la Repubblica, 4 maggio 2023
Trent’anni di Forza Italia senza eredi
Il partito liberale di massa, il partito dei cattolici, il partito dei conservatori, il partito dei riformisti, «l’unico vero partito di sinistra» (Silvio Berlusconi), il partito «che non ha nulla a che fare con la destra» (Fabrizio Cicchitto), il partito Zelig, il partito come tu mi vuoi, pazza pazza Forza Italia, in ultimo sempre solo e soltanto il partito di Silvio Berlusconi.
Il Cavaliere smania per essere presente in qualche forma alla convention forzista a Milano venerdì e sabato, un evento quasi inatteso, dopo i malanni del leader, per una forza politica che a gennaio prossimo festeggia trent’anni di vita e che, dopo aver rinunciato da anni a decidersi tra le sue presunte o millantate identità, celebrerà due fatti chiari sebbene non ufficiali: il passo avanti di Antonio Tajani, ormai capo politico di fatto, e l’insediamento del nuovo cerchio magico azzurro, misurabile nel diametro che separa i fortunati dal Grande Centro, ovvero la quasi consorte Marta Fascina. Potere informale ma effettivo. Un classico di Forza Italia. Come il kit dei candidati o le barzellette del capo.
C’è stato un momento, nella storia del partito, in cui non si capiva nemmeno chi fossero i tesserati: c’erano i club delle origini, c’erano i circoli veri e propri, i circoli dei Giovani di Marcello Dell’Utri, i circoli Liberali di Raffaele Costa, i circoli della Libertà di Michela Vittoria Brambilla, e di questi ultimi si fece finta per mesi che avessero vita propria, tanto che l’allora coordinatore Sandro Bondi propose «un accordo FI-Circoli della libertà», la prima fusione mitologica tra un partito e una persona. La moltiplicazione dei posti e degli incarichi, del resto, è una specialità della casa di Berlusconi da quando scoprì che i venditori di Publitalia, nominati “direttori”, rendevano il triplo. Diede a tutti, ma proprio a tutti, la carica: «A noi non costa quasi niente e loro sono felici». Per questo FI è arrivata ad avere 51 dipartimenti, ciascuno ovviamente con un diverso responsabile, con effetti quasi comici che però consentivano a molti di poter dire la frase che è tuttora l’unica giusta: «Silvio mi ha nominato…». Per questo all’epoca del governo Berlusconi bis si contavano Elisabetta Gardini, ora in FdI, che era portavoce del partito, Paolo Romani alla Comunicazione, quindi il responsabile Editoria, quello Internet, quello Propaganda, fino al capolavoro del Cavaliere, che introdusse negli organigrammi il responsabile ai “Rapporti con i giornalisti del servizio pubblico”, titolo assegnato a un parlamentare ex giornalista Rai.
All’epoca, erano gli anni Zero, si era già chiusa la fase dei professori, quel ventaglio di accademici e intellettuali, molti con un passato di sinistra, che nel 1994 avevano dato lustro allafondazione del partito. Giuliano Urbani fece più strada, gli altri si allontanarono alla spicciolata. L’ex marxista Lucio Colletti continuava a non capacitarsi di certi compagni di strada: «Il nostro elettorato non li vota quelli di Alleanza Nazionale. Quando vedo Storace gli dico: che ci fai in Parlamento? Tu sei tipo da botte nei vicoli di Roma». A sua volta Colletti non piaceva a don Gianni Baget Bozzo, sacerdote ex craxiano e spin doctor del Cavaliere: «Colletti è come un lupo in un cortile, è solo scettico e lo scetticismo non serve in politica, meno intellettuali abbiamo in lista e più la gente ci apprezza». A Colletti è ora intitolata una sala di Montecitorio, la stessa dove nell’agosto del 2013 i deputati azzurri si salutarono prima delle vacanze di agosto con un video di Simone Baldelli, ex capo dei giovani, vestito da donna che imitava Laura Boldrini durante lo spoglio delle schede per la presidenza della Repubblica: «Bianca, bianca, Romano Prodi, Rocco Siffredi...» Emarginati i prof, licenziati i sondaggisti di corte, prima il segaligno Gianni Pilo e poi il rugbista Luigi Crespi, ideatore del contratto con gli italiani firmato in tv da Berlusconi prima delle Politiche del 2001, per anni impazzò la guerra tra Claudio Scajola e Marcello Dell’Utri. «Forza Italia è diventata un partito, purtroppo», disse a un certo punto Dell’Utri, e Urbani gli diede ragione sull’avverbio. Fu in quegli anni che Tajani sfiorò per la prima volta la carica di coordinatore, sostenuto proprio da Scajola, mentre Dell’Utri spingeva Micciché. Berlusconi nominò al posto di entrambi un ex radicale, Roberto Antonione, sul quale per mesi spararono da ogni direzione. La chiosa alla prima stagione forzista la mise un altro intellettuale deluso, il liberale Antonio Martino: «In Forza Italia dilaga una insaziabile cupidigia di servilismo».
Ecco dunque i nuovi coordinatori Bondi-Cicchitto, con Berlusconi che a cadenza regolare annunciava una rifondazione, finché nell’autunno 2007 salì sul predellino di un’auto a piazza San Babila e liquidò davvero tutti annunciando la nascita del Popolo delle libertà, il primo e unico tentativo di partito unico della destra italiana in attesa di quello di Giorgia Meloni. Durò il tempo di litigare per la vita con Gianfranco Fini, mai preso in considerazione come successore, quindi tornò Forza Italia, con il suo carico di velleitari aspiranti successori.
Tra di loro si era a quel punto fatto largo un giovane siciliano, figlio di democristiani, che nella sua prima intervista nazionale si era dichiarato «il Capello del centrodestra», inteso come Fabio, il mister di calcio. Alfano è colui che ha più creduto alla possibilità di essere designato successore. Fu affossato da un “quid”, di cui secondo il Cavaliere era privo.
Seguono anni di scissioni e addii, lo stesso Alfano, Denis Verdini. Presto frana tutto, insieme al cerchio magico degli anni del bunga bunga, Maria Rosaria Rossi, aspirante stampella del Conte ter, l’ex fidanzata Francesca Pascale, passata armi e bagagli alla sinistra arcobaleno. Cadono infine le ministre draghiane, cade Licia Ronzulli, penultima depositaria del potere informale. Come sempre, ne resterà solo uno, e non è il partito.