il Giornale, 4 maggio 2023
La peste del Manzoni non è mai passata
James Bradburne, direttore della Pinacoteca di Brera e della Biblioteca Braidense, è stato un po’ enfatico: «Guerra, carestia, peste, morte: i quattro cavalieri dell’Apocalisse che dominano i titoli dei giornali di oggi sono anche al centro della mostra, che prova come le parole di un grande scrittore possano aiutarci ad affrontare le sfide del mondo contemporaneo». Però, se voleva sottolineare l’universalità di Alessandro Manzoni, una ragione ce l’ha. La malattia, la morte, la paura, le cure, la scienza, le credenze, le psicosi collettive. Ossessioni di oggi, storie di ieri. Come celebrare al meglio i 150 anni dalla morte di Alessandro Manzoni, una delle figure più alte della letteratura italiana, personificazione di Milano, re-inventore della lingua, lo scrittore attraverso il quale parliamo così, «vediamo» e pensiamo così, dalla scuola media all’età adulta? Con una grande mostra – l’iniziativa più importante di quello che sarà un lungo anno manzoniano – che racconta il momento storico e letterario più tragico della sua opera: la peste. Un fantasma con la maschera a becco che entra, devasta e esce dai suoi due libri della vita: I Promessi sposi e la Storia della colonna infame. Benvenuti alla mostra Manzoni, 1873-2023. La peste, «orribile flagello», tra vivere e scrivere che si è aperta alla Biblioteca Nazionale Braidense di Milano, inaugurata ieri dal ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano (ed è stato importante che ci fosse in un luogo e per un evento del genere) e che racconta in un inedito percorso di carta la grandezza dello Scrittore, una nuova idea di Romanzo moderno, un esempio di impegno civile, l’eterno confronto fra Letteratura e Scienza. Lo spazio più bello della Braidense – la Sala «Maria Teresa» – una curatela originale e ineccepibile di Marzia Pontone, direttrice scientifica della Biblioteca, 17 teche-sezioni (con guida scaricabile da un QrCode, volendo), 114 fra libri in prima edizione, manoscritti, incunaboli, disegni e incisioni, e un’idea forte: sfruttare la narrazione manzoniana, non solo un classico ma un modello, per una riflessione corale sulla recente esperienza della pandemia, tra virus, stragi, ossessioni, medici della peste, «untori» (ieri erano i «barbieri», oggi i cinesi...), ossessioni, ricette fai-da-te e complotti. La tragoidìa non è solo nella letteratura ma della vita. Allestire mostre di libri non è facile. Ma quando escono bene – e La peste, «orribile flagello», tra vivere e scrivere è uscita molto bene – sono bellissime. Si parte dalla peste nel mito, il terribile morbo che colpisce il campo acheo all’inizio dell’Iliade: ecco un incunabolo in folio con la prima edizione a stampa della traduzione latina del poema dovuta a Lorenzo Valla, 1497. Poi si passa alla Storia, con la peste bizantina e la peste nera di cui il Manzoni leggerà attraverso il resoconto di Paolo Diacono: e qui ci sono opere di Tucidide, Tito Lucrezio Caro e l’edizione del Decameron curata da Lorenzo Salviati e stampata nel 1597 a Venezia con 101 «vignette» xilografiche. Quindi si attraversano le epidemie sforzesche e si arriva alle pesti borromaiche, fra cui la seconda del 1630 che Manzoni avrebbe reso celebre due secoli dopo: ed ecco una «grida» di Carlo Borromeo per invitare la popolazione a partecipare al rito della benedizione e a bruciare «libri lascivi, Madrigali e Canzoni disonheste» ma anche «dadi, carte, maschere et altre simili chose», poi una minuta autografa dell’incompiuto poemetto manzoniano La Vaccina in cui si presagiscono l’ambientazione lombarda e il tema della cura sanitaria del male, c’è il Trattato di vaccinazione del medico Luigi Sacco nell’edizione 1809, e ovviamente diverse edizioni dei Promessi sposi. E infine si «passa oltre», con documenti sull’epidemia nell’800, quando la sanità è ancora sospesa fra rimedi tradizionali, prime scoperte scientifiche e palliativi inutili se non dannosi, per chiudere il percorso con le prime traduzioni europee dell’opera del Manzoni a soprattutto il morbo raccontato dalle letterature straniere: la peste, il colera, la spagnola, il vaiolo e l’Aids nelle pagine di Jack London – eccola La peste scarlatta nella collana «Il Romanzo d’Avventure» della Sonzogno, anno 1927, «Prezzo Una Lira» – e di Thomas Mann, Camus, Gabriel García Márquez... e c’è persino Cecità di José Saramago. Poi c’è anche un’appendice: due teche con le bellissime tavole a colori «sfascicolate» dal trattato del fisico francese Louis-Joseph-Marie Robert (1771-1850) Guide sanitarie des gouvernements européens fra cui l’iconico medico del lazzaretto di Marsiglia nel 1720 con la tunica fino alle caviglie, i guanti, il bastone, il cappello a tesa larga e una maschera a forma di becco dove erano infilate essenze aromatiche e paglia per impedire il passaggio degli agenti infettanti... Anche le mostre di carta sanno trasmettere inquietudine. Tra i pezzi più interessanti in mostra: uno schizzo di mano del Manzoni con la pianta del lazzaretto di Milano, forse del 1839, con segnato in un inchiostro diverso il possibile percorso tenuto da Renzo dentro l’edificio; la serie di dodici incisioni di Francesco Corsi ispirate ai disegni preparatori di Gallo Gallina che illustrano altrettanti episodi del romanzo pubblicate e diffuse fra il 1828 e il 1830 dalla casa editrice Ricordi; i bozzetti di Francesco Gonin, che lo stesso Manzoni definì «ammirabile traduttore in immagini» della sua opera, usati per illustrare la «quarantana» dei Promessi sposi, cioè l’edizione definitiva del romanzo del 1840, e che lo scrittore voleva arrivasse a tutti, anche soltanto attraverso le «figure»... e guardate bene il disegno per l’episodio della madre di Cecilia, capitolo 34, dove si narra di una donna che perde una figlia a causa della peste e non volendo che sia lanciata sui carri in mezzo agli altri cadaveri paga pietosa un monatto perché le dedichi un’attenzione... «Addio, Cecilia! riposa in pace! Stasera verremo anche noi, per restar sempre insieme». Per il resto, sappiamo come è andata con il Covid. Per quanto riguarda invece l’«orribile flagello» di manzoniana impresa, che ebbe il suo apice nell’estate del 1630 con seicento vittime al giorno, quando alla fine di quell’anno il morbo regredì, i morti nella sola Milano ammontavano a centocinquantamila.