La Stampa, 4 maggio 2023
Paura dell’intelligenza artificiale
È tornata la fine del mondo. Deve essere un argomento che ci attrae evidentemente perché è da qualche migliaio di anni che, con una periodicità ossessiva, torniamo a parlarne. Anche adesso, come se non bastasse la minaccia – reale, scientifica, concreta – delle conseguenze del cambiamento climatico indotto dai nostri stili di vita. Ma cambiare abitudini, rinunciare gradualmente ai combustibili fossili e alla plastica, stare attenti a non sprecare nulla riciclando quando possibile, è troppo faticoso. E così da qualche mese siamo tutti occupati a discettare delle minacce di estinzione di massa causata dalla nuova intelligenza artificiale. Nuova nel senso che l’intelligenza artificiale, in forme diverse, è già nelle nostre vite e ci assiste nelle nostre giornate senza che neppure ne siamo consapevoli (la playlist che ascoltiamo, la app che ci guida nel traffico…). Ma l’intelligenza artificiale che fa paura è un’altra: è quella generativa, cioè quella in grado di generare artefatti come se fosse “umana": parliamo di testi, immagini e suoni, ma sono essenzialmente i testi ad averci lasciato a bocca aperta.«Siamo davanti alla prima tecnologia della storia in grado di creare storie», ha detto in proposito lo storico e filosofo Yuval Harari, uno fra coloro che pensano che la specie umana potrebbe non sopravvivere a questa ennesima rivoluzione. Non sono molti a pensarla così ma il problema è che sono tutti nelle file di quelli che in questi anni hanno contribuito a sviluppare l’intelligenza artificiale generativa. Sono quelli che sanno, insomma. Il che rende la minaccia molto credibile e anche molto Blade Runner: «Ho visto cose che voi umani…».Ma cosa hanno visto esattamente quelli che temono la fine del mondo? Uno di quelli che in questa vicenda ha un ruolo chiave, Sundar Pichai, amministratore delegato di Alphabet (Google), ben cinque anni fa, nel corso di un evento a San Francisco, disse che l’intelligenza artificiale avrebbe avuto «un impatto più profondo della scoperta del fuoco e dell’invenzione dell’elettricità». Sono parole importanti. E quindi vale la pena di andare a controllare cosa accadde in quelle due circostanze. Cosa accadde quando fu inventata l’elettricità? Fu per caso accolta trionfalmente e senza problemi? No, ci fu una sfida durissima che vide contrapposti da una parte Thomas Edison, noto anche come il padre della lampadina, che sosteneva la corrente diretta (DC); e dall’altra George Westinghouse che aveva comperato i brevetti di Nikolas Tesla e sosteneva invece la corrente alternata (AC). E su cosa si giocava questa sfida? Sui rischi, sui pericoli. Per l’umanità ovviamente. Oggi che la accendiamo e la spegniamo con un interruttore senza pensarci può apparire folle, ma allora si discuteva praticamente soltanto su quale tipo di corrente elettrica fosse più pericolosa. A un certo punto, quando Edison si vide alle strette, un suo collaboratore creò delle false notizie sui morti causati dalla corrente alternata, e alcuni animali vennero platealmente abbattuti in questo modo (ed è in questo contesto, tra l’altro, che venne adottata per la prima volta la pratica della sedia elettrica per i condannati a morte, tanto per dire del livello del confronto).E quando venne scoperto il fuoco che accadde? Non lo sappiamo precisamente. Sappiamo però che fu circa 500 mila anni fa, al tempo dell’Homo Erectus. E possiamo immaginare che ci fu chi disse: è una meraviglia, lasciamo che vada ovunque senza regole! E ci fu chi rispose: no, distruggerà tutto, spegniamolo subito. Per fortuna ebbero entrambi torto. Seguendo l’indicazione del primo, infatti, il mondo sarebbe diventato una landa desolata e bruciata; mentre seguendo il secondo gli esseri umani si sarebbero estinti per il freddo e gli assalti degli animali feroci. Non sappiamo come si svolse la discussione ma sappiamo con certezza che prevalse una terza via: prevalsero quelli che il fuoco decisero di studiarlo, che impararono a contenerlo e ad usarlo per il bene dell’umanità. Fu una gran fortuna che si è ripetuta ogni volta che una nuova tecnologia ha attraversato le nostre vite.Ora siamo di nuovo lì. Da una parte ci sono le aziende che hanno investito milioni di dollari in ricerca; che sentono finalmente di avere tra le mani qualcosa di potente, qualcosa in grado di ridisegnare i mercati; e che spingono perché questa tecnologia la usino subito più persone possibile. E dall’altra c’è un piccolo ma autorevolissimo gruppo di scienziati e filosofi che dicono «fermiamoci, prima che sia troppo tardi» (i filosofi sono importanti in questa storia, perché l’intelligenza artificiale generativa di fatto riproduce il linguaggio umano che è un po’ come il nostro sistema operativo, il che rende l’intera vicenda molto filosofica).Cosa rischiamo? Il giornalista Cade Metz, che questi temi li segue da anni e li ha raccontati in un libro di successo, ha elencato tre rischi, in ordine crescente: il primo è il dilagare della disinformazione, ovvero di contenuti fasulli creati da intelligenze artificiali sui social; il secondo è la perdita di lavoro per molte persone, sostituite da efficienti algoritmi; il terzo, il più terrificante lo definirei, la perdita dell’equilibrio che fa funzionare le cose e vede intelligenze artificiali che si collegano ai nostri data center e iniziano a impartire comandi distruttivi. La fine del mondo.Cosa dovremmo fare? Spegnere tutto o lasciar correre? Sono due strade sbagliate, ormai lo sappiamo; e soprattutto, inutili. Ora che si è capito come funzionano e si addestrano queste reti neurali dei computer, ci sarà sempre qualcuno che continuerà a svilupparle da qualche altra parte. Per esempio in Cina. C’è la terza strada però. Fare quello che fece l’Homo Erectus con il fuoco: studiare, capire, regolamentare. Non sarà facile, ci saranno scontri, ci saranno sconfitte. Ma come disse una volta Walter Benjamin (un altro filosofo, non è un caso), a proposito dello sguardo spaventato di angelo in un quadro di Paul Klee, «ciò che chiamiamo il progresso, è questa tempesta».