Corriere della Sera, 4 maggio 2023
Sull’omicidio di don Pessina
L’omicidio di don Umberto Pessina, parroco di San Martino Piccolo (frazione di Correggio, provincia di Reggio Emilia) avvenne nella tarda serata del 18 giugno 1946, a meno di due ore dallo scadere degli effetti dell’amnistia Togliatti, riguardante i «delitti politici».
Le indagini subirono un’improvvisa accelerazione quando Beniamino Socche, vescovo di Reggio Emilia, ottenne che il capitano Pasquale Vesce, comandante una compagnia di carabinieri di Bologna, se ne facesse carico. Il 13 marzo 1947 veniva così arrestato il sindaco di Correggio, cattolico e comunista, ex partigiano, Germano Nicolini (nome di battaglia Diavolo): in un primo tempo accusato di essere l’esecutore materiale dell’omicidio, poi, di fronte a un alibi inattaccabile trasformato in mandante. Mentre avveniva l’omicidio, Germano Nicolini stava giocando a bocce in coppia con Adorno Anceschi, il campanaro di don Pessina, davanti a decine di spettatori. Al testimone chiave del delitto, Antenore Valla, la «confessione» fu estorta con la tortura (un cerchio metallico stretto attorno alla testa) dagli uomini di Pasquale Vesce. Altri due innocenti, Ello Ferretti e Antonio Prodi, finirono in carcere, condannati come Nicolini a 22 anni, nonostante la tardiva ammissione di responsabilità da parte di due dei tre veri partecipanti all’azione omicida: Cesarino Catellani ed Ero Righi. Il terzo responsabile, William Gaiti, che sparò il colpo mortale, non venne mai nominato se non nel corso del processo di revisione al termine del quale, nel 1994 i giudici scagionarono Germano Nicolini, Ferretti e Prodi per non avere commesso il reato.
Raccontati così, in modo estremamente sintetico, i fatti ci pongono di fronte a una grande ingiustizia; per Nicolini, in particolare, anche dopo il carcere la vita diventerà un inferno. Difficile trovare un lavoro, quasi impossibile riallacciare relazioni di amicizia e politiche nel comune che lo aveva visto acclamato sindaco di tutti; addirittura, inutile fare riferimento al suo valoroso passato di comandante partigiano che aveva combattuto in quelle aree della pianura emiliana con estremo coraggio e abnegazione, rischiando ogni giorno la vita per gli altri.
Dopo dieci anni di carcere, fu Aldo Moro, all’epoca ministro di Grazia e Giustizia, a concedergli la libertà vigilata, che gli consentì di uscire dalla prigione nel 1957, all’età di 38 anni.
Eppure, i dirigenti della federazione del Partito comunista di Reggio Emilia e quelli della sezione di Correggio, fin dalla mattina del 19 giugno 1946 sapevano nei dettagli come si erano svolti i fatti e chi ne erano i colpevoli. E dopo di loro, tutta una generazione di dirigenti comunisti, fino al 1990, si tramanderà questo segreto, che rese la vita di Nicolini e della sua famiglia un inferno. Il libro di Fausto Nicolini (figlio di Germano) e dello storico Massimo Storchi (Cent’anni di rettitudine, Gaspari editore, pp. 638, e 29) si propone di raccontare la verità di questa storia che consente al lettore di ripercorrere quelle connivenze sospette che hanno infangato la memoria della Resistenza. Il clima conflittuale dell’immediato dopoguerra, l’onda lunga della guerra interna («guerra civile italiana») attraverso questo libro possono essere inquadrati con chiarezza. Il 25 aprile 2017, Nicolini incontrò il presidente Mattarella che riconobbe in lui un uomo giusto, che aveva contribuito eroicamente alla nascita della Repubblica. Nicolini è morto nella sua casa di Correggio il 24 ottobre del 2020 all’età di cent’anni.