Corriere della Sera, 4 maggio 2023
Su "La guerra promessa" di Danilo Taino (Solferino)
«Lo Stretto di Taiwan è il luogo più pericoloso al mondo, da cui potrebbe iniziare la Terza guerra mondiale», scrive Danilo Taino ne La guerra promessa (Solferino). Questa affermazione è condivisa dagli esperti di geopolitica e dai vertici militari delle superpotenze. L’eventuale deflagrazione non sconvolgerebbe solo i Paesi vicini, nonché l’America qualora intervenga a difendere Taiwan da un’invasione cinese. L’Europa entrerebbe — come minimo — in una paralisi tecnologica visto che dipende dall’Estremo Oriente per i semiconduttori e altri componenti digitali. Perciò ha fatto scalpore l’uscita di Emmanuel Macron a Pechino, quando incontrando Xi Jinping il presidente francese ha espresso l’opinione che il futuro di Taiwan non riguarda l’Europa. Dietro il cinismo con cui Macron ha «regalato» al regime di Pechino l’unica democrazia cinese, s’intravvede l’adesione a un pilastro della propaganda comunista: l’affermazione secondo cui Taiwan è sempre stata della Cina.
Il saggio di Taino, che da inviato del «Corriere» ha visitato l’isola, è utile fra l’altro per fare chiarezza su questa mistificazione. La storia di Taiwan, antica e moderna, è molto più complicata. All’origine l’isola ha una popolazione autoctona, imparentata con quelle di vari arcipelaghi dell’Sud-Est asiatico e del Pacifico. Viene colonizzata a più riprese da potenze esterne: Cina, Giappone, imperi europei. Quando la popolano dei cinesi, si tratta per lo più di etnie minoritarie, perseguitate sul continente. In quanto a identità culturale, l’impronta del Giappone è forte e sta perfino aumentando tra le giovani generazioni, che guardano a Tokyo come un modello, non a Pechino. Taino unisce la ricostruzione della storia antica al reportage d’attualità: racconta gusti e costumi delle giovani generazioni taiwanesi, che si sentono sempre meno cinesi.
Gli stessi governanti americani però sono prigionieri del principio per cui esiste «una sola Cina» e dunque Taiwan non può aspirare all’indipendenza. Quel principio è irrinunciabile per Pechino da quando Mao Zedong nel 1949 vince la guerra civile contro i nazionalisti del Kuomintang guidati da Chiang Kai-shek (che si rifugiano sull’isola) e inaugura la Repubblica popolare. Poi Mao mette nero su bianco il principio «una sola Cina» nel 1972 come condizione per il disgelo con Richard Nixon. In quella fase Taiwan è ancora governata da una dittatura di destra che professa lo stesso principio, cullandosi nell’illusione di poter riconquistare l’intera Cina liberandola dai comunisti. Era difficile per gli americani difendere l’esistenza di due Cine, se nessuno degli interessati ci credeva. Le cose iniziano a complicarsi nel 1988 con la transizione di Taiwan alla democrazia, felicemente conclusa nel 1996 con le prime elezioni presidenziali democratiche. In parallelo si dissolve la finzione del piano di riconquista della terraferma. L’identità culturale taiwanese si afferma in modo sempre più esplicito e libero.
Però ancora nel 1998 Bill Clinton riafferma il no americano all’indipendenza di Taiwan, che comporta anche il rifiuto di riammetterla nelle organizzazioni internazionali da cui è stata espulsa dopo il riconoscimento della Repubblica Popolare. Taino descrive quella posizione Usa come «un’apertura senza contropartite ai desideri di Pechino, moderata solo dalla pallida affermazione che era interesse massimo degli Stati Uniti che la questione di Taiwan fosse risolta pacificamente». L’unica attenuante è l’illusione di Clinton che il regime comunista fosse destinato a evolversi in senso liberaldemocratico, come conseguenza inevitabile della sua integrazione nell’economia globale (e nella Rete).
Oggi l’America sembra pagare i suoi errori. L’ambiguità su Taiwan nel 1972 poteva anche sembrare innocua: la soverchiante superiorità militare Usa era un deterrente sufficiente contro l’invasione. Ma che l’attacco militare fosse nei piani di Pechino, non è mai stato escluso, neppure quando la Repubblica popolare era molto più debole di oggi.
Le ambiguità non stanno tutte da una parte. I comunisti cinesi, pur denunciando la presenza americana in Asia, sottovoce l’hanno considerata a lungo come un fattore di stabilità, nel loro stesso interesse. E con ragione. È istruttivo leggere nel saggio di Taino il ruolo della Casa Bianca e della Cia nell’impedire che Taipei si costruisse la bomba nucleare. Tema attuale: oggi gli americani impediscono che la Corea del Sud e il Giappone si dotino di arsenali nucleari per proteggersi dall’espansionismo cinese. Quell’ordine multipolare che Xi Jinping dice di volere, rischia di ritorcersi contro di lui se la sua prepotenza innesca un’escalation del riarmo nel suo cortile di casa.
La politica estera di Xi ha rinunciato alla cautela dei suoi predecessori, l’astuzia e la lungimiranza di un Deng Xiaoping sembrano lontane. Forse era inevitabile che la crescita economica trascinasse con sé la riscoperta di tradizioni e appetiti imperiali. Ma la brutalità con cui Xi ha calpestato le promesse di autonomia fatte da Deng su Hong Kong, rende meno credibile lo scenario di una riunificazione consensuale che lasci a Taiwan diritti umani e libertà.
E noi? La conclusione dell’autore è questa: «L’Occidente ormai sa che Pechino non diventerà una potenza benefica solo grazie a un Pil più alto: va impedito che le sue tendenze egemoniche e l’esportazione del suo modello dittatoriale abbiano successo, senza però cercare di farne fallire l’economia. Facile a dirsi, ma questa è la sfida che oggi il mondo delle democrazie ha di fronte. E sulla questione di Taiwan si svilupperà un capitolo fondamentale di questa sfida».