Corriere della Sera, 4 maggio 2023
Da "Dilaga ovunque" di Vanni Santoni (Laterza)
Che tempi... Internet non esisteva ancora, e la maggior gloria che potevi avere era fare una foto con la macchina a rullino, portarla a sviluppare, mandarla per posta a una fanzine e aspettare quattro mesi... Oppure fare un treno sulla linea lenta Bologna-Prato, che non veniva pulita quasi mai e così lo vedevi andare tra l’Emilia e la Toscana mille volte... A quei tempi ancora non c’erano le pellicolature integrali a rivestire i treni (arma finale anti-graffiti: stacchi la pellicola e non devi pulire il treno), che erano solo il prodromo del peggio, perché un altro decennio più tardi avrebbero pure cominciato a stamparci sopra le pubblicità (e allora lì, chissà come mai, i benpensanti tutti muti)... Anche se in Italia eravate, di fatto, indietro di vent’anni rispetto alle origini del fenomeno, per voi e per le città in cui vi muovevate era tutto nuovissimo, ogni tanto arrivava qualcuno tornato da un Interrail e mostrava le foto di cosa c’era sui muri di Londra, Parigi o Amsterdam, e nonostante fosse una comunicazione a così bassa intensità, in qualche modo passava, e ne potevi vedere gli sviluppi tecnici davanti a te, anche a livello locale... Dove li avevate visti, del resto, i primi graffiti? In TV, probabilmente: in qualche film o videoclip americano, o ancora nei videogiochi, dove non c’era sfondo USA senza qualche muro o treno graffitato.
Tra l’altro da voi latitava anche un collegamento forte con la pur nascente sottocultura hip hop: tanti dei primi graffitari italiani andavano in skate e ascoltavano punk hardcore o thrash metal, c’era tutta un’altra ibridazione di culture di strada rispetto all’America... Per dire, giusto quando andaste a Milano in visita ad altre crew con cui avevate stabilito un contatto, vedeste dei breaker, ma di quella gita ti colpirono tutt’altre cose, la maestria della crew TDK vista nella loro hall of fame, il wild style dei CKC-PWD (lì capiste quanto eravate indietro!) e la superiorità degli stessi ragazzi che vi ospitarono: andaste a beccarli alla loro base, che era in Vetra, una piazza in cui si incrociavano situazioni e persone di ogni genere, e senza troppi convenevoli vi portarono dritti a dipingere. E treni, non muretti. Ricordi il vostro stupore a vedere che sapevano disinnescare gli allarmi dei depositi e conoscevano gli accessi alle banchine della metro, che, vi spiegarono, erano un po’ il segreto dei segreti, dato che dipingere lì significava contare i minuti prima che arrivasse la sicurezza, ma dall’altro lato i pezzi non venivano buffati, ovvero coperti subito, e potevano resistere anche mesi o anni...
In quei tre giorni imparasti più che in vari mesi a Bologna, tanto più che quelli si erano inventati trucchi assurdi — avevano addirittura realizzato delle scalette di corda per scendere nei tombini — oppure semplicissimi come mettersi uno sulle spalle dell’altro per taggare più in alto... Avevano pure le bombole straniere, uno di loro in pratica le spacciava, e ne compraste pure un paio; inoltre sempre lo stesso tipo vi passò l’idea di fregare le tolle d’intonaco dai cantieri e poi usarle per fare i blockbuster, le scritte quadratone iper-leggibili; notasti anche che lì a Milano molti writer arrivavano da famiglie non proprio benestanti, lì era davvero un movimento popolare, e anche per questo se ne inventavano «di ogni» per dipingere gratis... Pure, fu lì che decidesti di restare sugli sticker, to stick with stickers, come diceva Trane, un ragazzo inglese che studiava a Bologna e frequentava il muretto, con cui te la facesti per un po’: la superiorità di quei milanesi, sia in termini tecnici che di capacità di muoversi nel campo minato della metropoli, ti aveva impressionata addirittura troppo, tant’è che quando vi portarono nel deposito a fare dei vagoni ti vergognasti come una ladra del pezzo marcio che lasciasti, anche se non ti dissero nulla, forse perché eri ospite, forse perché eri l’unica ragazza, e in fondo volevano fare i fighi (non che ne avessero bisogno: lo dicevano già i muri e i treni della città); certo è che dopo quella puntata a Milano dipingesti meno, e quando dal vostro solito muretto finiste ai muri dei centri sociali dell’epoca, come il Livello57 poco lontano, ti presero altri interessi, serigrafia, femminismi, dub culture, fotografia (tutto pur di non studiare!) e lasciasti le bombole a prendere la polvere in una scatola di cartone sotto al tavolo della tua stanza, ma ciclicamente ti è sempre tornato il ricordo della vitalità culturale, non importa se spartana e naïf, di quei muretti, il clima di ricerca (tutte parole che puoi affibbiare solo adesso, ai tempi stavate lì a ghignare e sfumazzare, o partivate in massa per fottere le bombole in qualche ingrosso: non ti sentivi esattamente un’artista...) che si respirava, l’entusiasmo quando qualcuno portava il racconto di un nuovo trucchetto tecnico (c’era chi saccheggiava i tappini di schiume da barba, lacche per capelli o amido da stiro dai supermarket per vedere «come sparavano» una volta applicati alle bombole; un’altra volta qualcuno portò un rullo a cui aveva applicato un bastone telescopico e andaste subito a fare un paio di cavalcavia inaccessibili...), la scoperta di un accesso a un deposito, o anche solo di un binario morto dove lasciavano un paio di treni, la foto di un pezzo strano scattata chissà dove o gli sticker scambiati per posta con gente di altri paesi europei...
E di certo, anche nel vostro piccolo, quando qualcuno azzeccava una lettera figa, allora tutti la volevano fare più figa; quando qualcuno lasciava un throw-up in un posto difficile, volevate subito andare oltre; quando qualcuno faceva un pezzo oggettivamente meglio dei vostri, lo volevate subito raggiungere... Non lo facevi più, ma il ricordo di quel clima ti era sempre rimasto addosso, forse perché per la prima volta ti confrontavi davvero con qualcuno, con qualcosa, e così i tuoi amici, insomma vi misuravate con la realtà e vi dicevate «Be’, forse pure io non sono proprio da buttare…».