La Stampa, 3 maggio 2023
Intrvista a Margaret Atwood
Margaret Atwood, a ottantatré anni, sembra essere venuta a patti con le sue evidenti doti chiromantiche. E ne ha fatto una filosofia di vita.Dalla pubblicazione del suo primo romanzo, nel 1969, il mondo ha visto un continuo alternarsi di rivoluzioni e rivalutazioni, disgrazie e riprese, momenti di buio e di luce accecante, senza che Atwood abbia mai mancato occasione per anticipare i tempi e mettere in letteratura lezioni per un futuro plausibile che lei sembra sempre intuire con assoluta chiarezza. Fa parte della natura umana, dice, tornare sui propri passi. E alla narratrice non resta che attestare i tempi che stanno per correre, di evoluzione o devoluzione; senza particolare giudizio, ma con una sorta di rassegnata vitalità e curiosità per il prossimo, prevedibile imprevisto dell’umanità.Sprazzi e frammenti di questa tendenza si trovano ovunque nella sua produzione: dalla grande (e tristemente azzeccata) fiction speculativa di Il racconto dell’ancella, alla più particolareggiata e intima trattazione dei rapporti interpersonali di romanzi come La donna che rubava i mariti, pubblicato originariamente nel 1993 e ora riproposto in una nuova edizione da Ponte alle Grazie, per la traduzione di Margherita Giacobino. Sempre con un sottile sorriso sulle labbra, quello di chi la sa lunga, su come andrà il destino.Ho letto che di recente Il racconto dell’ancella è stato bandito da qualche biblioteca scolastica nel Midwest…«Oh, succede di continuo. Ogni tanto viene bandito da qui, ogni tanto da là».La preoccupa?«No, non più di tanto. Bandire i libri è un’attività che è sempre piaciuta a un certo tipo di persone, che così facendo sperano di arginare le idee e di allinearle alle loro».Cosa significa?«È fascismo, sostanzialmente. Si tratta di persone che non sono a favore della democrazia. Oltretutto sono particolarmente ostili a qualsiasi cosa contenga del sesso, vai a capire perché».Ma a cosa serve?«A niente ovviamente. Storicamente i libri banditi sono quelli più letti. Più si impongono restrizioni alle persone, più queste saranno invogliate a infrangerle. Anzi, è un’ottima pubblicità: bisognerebbe augurarsi che i propri libri vengano banditi, o cancellati, o bruciati se necessario, ed essere certi che venga fatto nel modo più pubblico possibile, così si sarebbe sicuri di avere dei lettori affezionati. Però è sempre successo e sempre accadrà».C’è qualcuno che può fare qualcosa?«Di solito l’opposizione viene dagli studenti, che difendono strenuamente ciò che vogliono e sono nel diritto di leggere».La cosa strana del periodo di censura che stiamo attraversando è che accade che siano le nuove generazioni, le più contrarie…«Alcune, non me la sentirei di generalizzare. Immagini un diagramma a piramide: sulla cima abbiamo la tirannia e sulla base il caos. In mezzo, il diagramma è attraversato da una zona che definirei “temperata”, di equilibrio democratico. Poi abbiamo due frecce che puntano verso l’alto e due verso il basso, a destra e a sinistra della piramide: verso la tirannia e verso il caos. Le prime per la tendenza all’ordine sopra ogni cosa, le seconde per la tendenza al disordine sregolato».Perdita del controllo?«Non per forza. Spesso il caos è generato ad arte, per indurre le masse a rivolgersi a un unico organo che riporti l’ordine; quindi, si torna a tendere verso la tirannia. Da una parte l’assenza totale di regole, che fa paura, dall’altra i treni che arrivano in orario. Nel Ventesimo Secolo abbiamo assistito a dittature sia a destra che a sinistra, per risolvere la base della piramide e arrivare all’apice. Il primo sintomo della tendenza alla tirannia è sempre stato il controllo dei mezzi di comunicazione».Quindi non è qualcosa che appartenga a una categoria o a una forza politica?«No, è una caratteristica comune a tutti gli esseri umani: l’ambizione al potere, che si traduce nel controllo totale e nel dominio dell’ordine sopra il caos. Può venire da qualunque parte, da qualunque generazione, da qualsiasi classe sociale».Sembra uscito dalla mente di George Orwell…«Sarebbe bello! L’ho intervistato di recente».Orwell?«Sì, tramite una medium, è stato molto gentile ad accettare. Dovevo scrivere un saggio in cui intervistavo l’autore o l’autrice del passato che mi interessava maggiormente. È nella mia nuova raccolta, intitolata Old Babies in the Wood (uscito negli Stati Uniti il 7 marzo scorso per l’editore Doubleday, ndr)».Come mai ha scelto proprio lui?«Mi sembrava appropriato per i tempi che corrono. Orwell è stato in grado di prevedere con una certa precisione il nostro presente, non nei dettagli, ma nel generale andamento delle cose».È qualcosa che avete in comune. Ci sono aspetti di quello che lei ha previsto nel 1985 che le sembra si stiano avverando?«Sì, moltissimi. Ma il processo era già in atto quando ne scrivevo, durante la presidenza Reagan negli Stati Uniti. Si stava costruendo un regime teocratico, e in maniera nemmeno troppo sottile. Non era niente di nuovo: il sistema democratico statunitense è fondato sulla tendenza alla teocrazia e al potere dei pochi, che poi si è trasformato in democrazia esemplare ma che alle sue radici ha sempre la matrice teocratica che ne ha gettato le basi».È un sistema che si ripete di continuo?«Sì, peggiorando sempre di più e tornando ogni volta sempre un po’ più indietro. Reagan ha distrutto il New Deal, ha tolto libertà alle donne e vanificato i movimenti femministi degli anni Settanta. Dopo di lui, si è dovuto ricostruire tutto da capo, partendo un passo più indietro. Ora si aboliscono i diritti fondamentali sanitari, si cancellano le leggi sull’aborto e sulla contraccezione. È un sistema sempre peggiorativo».È in pensiero per il futuro?«Di futuri ce ne sono moltissimi e non sapremo mai quale ci toccherà finché non lo vivremo. C’è sicuramente chi nel 49 a.C. è rimasto bello tranquillo a godersi il sole di Pompei senza che nessuna eruzione devastante venisse a disturbarlo. L’11 settembre del 2001 stavo aspettando di prendere un aereo per New York: dovevo fare una lettura sotto le Torri Gemelle e invece mi sono trovata a tornare a casa in taxi. Chi poteva prevederlo? Probabilmente c’è una versione di me che ha fatto l’incontro e ne è uscita illesa».Però possiamo immaginare una tendenza…«Questo futuro qui, quello che stiamo vivendo noi in questo momento, mi sembra abbastanza segnato, benché ci sia ancora chi voglia negare la china negativa lungo la quale stiamo rotolando».Parla dei complottismi o dei populismi?«Hanno la stessa matrice. Vengono entrambi dalla brama di potere dei pochi a discapito di molti e, forse soprattutto, dalla paura. Che è paura di perdere il potere, per prima cosa, ma anche di non avere ragione e di doverne subire le conseguenze. Chi nega il disastro ecologico globale o chi ha negato la pandemia di Covid, lo fa soprattutto per il terrore di dover affrontare eventi di portata sconcertante e di essere messo all’angolo, indebolito da qualcosa di incontrollabile».Si può fare qualcosa?«Si può continuare a rimanere informati. L’informazione, in un mondo che conta sull’ignoranza per affermare un principio negativo, è una forma di resistenza assoluta. L’unica cosa che impedisce al potere di trasformarsi in brama e quindi in tirannia, è la possibilità di criticarlo».Pensa che, dal punto di vista dell’informazione, tutto stia andando per il verso giusto?«Non esiste un verso giusto. Probabilmente la domanda che dovremmo porci, di questi tempi, è: “È la verità?”. L’informazione, per quanto ne sappiamo, non è mai stata completamente sincera e indipendente, ma ci sono epoche in cui lo è di più, ed epoche in cui lo è di meno. Non si può veramente mai fidarsi. In democrazia, però, quando notiamo una stortura possiamo additare i responsabili e farglielo notare; se poi l’errore è macroscopico possiamo far loro causa. In dittatura, no».Quindi dove sta la verità?«A livello del terreno. Per strada. Nelle interazioni comuni. Perdendo di vista ciò che accade a livello del suolo, si perde il controllo su ciò che è reale e attendibile. Se si smette di ascoltare, si perdono le ragioni per le quali tutto accade. È per questo che spesso si ha la tendenza a tornare al passato, per l’ansia di ciò che non si può prevedere, avendo smesso di ascoltare».Come si pongono i social network in questo scenario?«Come ogni altro mezzo di informazione, solo meno mediato e più diretto».Non si rischia qualche eccesso?«Ovviamente, come sempre e ovunque. Il lato oscuro di questa democratizzazione popolare è che si può avere la tendenza a esprimere le proprie opinioni contrarie in maniera violenta. Se dovessimo erigere un monumento ai giornalisti uccisi per un’opinione contraria a quella popolare verrebbe qualcosa di mastodontico. Occorre cercare di restare in controllo e non avere paura di esprimersi».Lei sta facendo la sua parte, pubblica un libro all’anno…«Sì, ma sono piuttosto brevi. Non pubblico un libro lungo all’anno».Legge alla stessa velocità alla quale scrive?«Leggo molto più velocemente. È una cosa alla quale gli scrittori non pensano mai, ma i lettori sono molto più veloci di loro».Quindi bisogna continuare a nutrirli?«Non è un obbligo, ma nemmeno qualcosa di cui ci si debba sentire in colpa.Cosa legge?«Molta saggistica, libri di storia, divulgazione scientifica. Mi piace molto leggere di argomenti complessi spiegati da autori abbastanza bravi da renderli accessibili. Da giovane sono quasi diventata una biologa».E poi cosa è successo?«È stata una tragedia, vero? Avrei dovuto proseguire con la biologia».Assolutamente no…«A quei tempi, in Canada non avevamo molti scrittori famosi contemporanei. A scuola studiavamo soprattutto autori inglesi, qualche volta americani. Tutti morti. Quindi il messaggio era: se vuoi fare la scrittrice, è meglio che tu muoia. Avevo sedici anni, ero al liceo e ho semplicemente cominciato a trovare più avvincente scrivere di ogni altra cosa. Non ho mai smesso».Rilegge mai romanzi o racconti che ha scritto in passato?«Sì, mi capita. Ma non ne faccio una regola o un’abitudine. Mi piace immaginare nuove idee, nuovi scenari, piuttosto che tornare sui passati».In Italia è uscita una nuova edizione di La donna che rubava i mariti…«Ah, quello è uno dei più divertenti che ho scritto. In effetti l’ho rivisto di recente, deve essersi trattato di un presagio».Lo trova attuale?«Penso che certe dinamiche, in questo caso una certa crudeltà nutrita dall’invidia, appartengano all’animo umano e siano indissolubili da esso. Sono eterne e presenti in tutte le culture. Il pensiero evolve a livello globale, generale, universale; ma nel particolare, nel singolo, rimane legato all’istinto e alla primordialità del comportamento. È etologia: riducendo il gruppo, si induce una riduzione della complessità delle relazioni. Ecco, ho fatto divulgazione scientifica».Ha mai pensato che avrebbe scritto qualcosa diversamente, rileggendola?«Avrei scritto opere più brevi. Nient’altro».Perché?«Credo che l’estetica cambi, invecchiando. Per me è cambiato il senso del numero di parole necessarie a esprimere un concetto. Le ridurrei, tutto qui. Ma non cambierei i contenuti: sarebbe come barare. Ciò che si scrive in un determinato momento è lo specchio di quell’attimo».Ha mai pensato di smettere di scrivere?«Che domanda! Quando hanno chiesto a Samuel Beckett perché scrivesse, ha risposto: “Not good for anything else”. Ogni volta che mi sono trovata a un bivio nella vita, ho preso la direzione che portava alla scrittura, eliminando tutte le altre possibilità. Quindi, cos’altro potrei fare se non scrivere?».Si diverte ancora a scrivere?«Sì, assolutamente. Tuttavia, nel mio passato da studiosa dell’epoca vittoriana ho esplorato le vite di molti autori di quei tempi: loro non hanno smesso di scrivere, sono solo peggiorati. Devo fare affidamento sui miei amici più stretti perché mi avvertano prima che io peggiori troppo, perché al punto in cui sono nella mia carriera, potrei scrivere l’elenco del telefono e verrebbe pubblicato. Non voglio che succeda. Voglio che mi venga detto: non sei più capace, fermati».È una bella responsabilità…«Già, è per questo che non voglio prendermela da sola. Ho visto troppi autori dichiarare di aver smesso di scrivere e poi pubblicare nuovi libri. Una figuraccia».Lei riesce sempre a ironizzare su tutto in maniera molto equilibrata, come fa?«Penso che venga dal modo che abbiamo di fare umorismo nella parte del Canada dove sono cresciuta. È una forma di autodifesa: serve ad affrontare le situazioni peggiori senza farsi sovrastare, con una risata. Amara, a volte, ma pur sempre una risata, che è meglio che piangere su ciò che non si può risolvere». —