La Stampa, 3 maggio 2023
Intervista a Roberto Saviano
Il ministro della Cultura Gennaro Sangiuliano ha perso in primo grado la causa di diffamazione contro lo scrittore Roberto Saviano. Secondo il giudice di Roma Silvia Albano, definire l’attuale ministro, quando fu nominato vice direttore del Tg1 e poi direttore del Tg2, “galoppino” di Mario Landolfi (condannato in via definitiva a due anni per corruzione), Italo Bocchino, Nicola Cosentino (condannato in via definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa a dieci anni) e Amedeo Laboccetta (condannato anche lui in Cassazione a sette anni per lo stesso reato) rientra nel “diritto di critica” garantito dalla Costituzione. Il ministro ha annunciato che farà ricorso in Appello.
Saviano, se lo aspettava?
«È una sentenza non scontata in una situazione politica del genere. Ora sta diventando sempre più difficile criticare il governo con parole forti».
Il giudice scrive nella sentenza: “Parole aspre”.
«Chi comanda deve poter esser criticato e non con prudenza. Lo ricorda anche la Corte europea dei diritti dell’uomo: maggiore è il potere politico e maggiore deve essere la possibilità di critica».
Si può dire allora quello che si vuole?
«Certo che no. Ma, al di là della sentenza a me favorevole, dobbiamo chiederci qual è il prezzo pagato da chi muove critiche forti al potere. Un prezzo pagato non solo in tribunale, dove quasi un intero governo mi ha portato. Bisogna considerare i tanti spazi che vengono tolti non solo a chi muove queste critiche ma anche a chi gli sta intorno. Di fronte alla critica questa destra crea il deserto».
Facciamo un esempio.
«Uno per tutti. La Lega appena andata la potere in Trentino chiude “Il festival dell’Economia” dove ero stato ospite. Le associazioni che ti invitano, le trasmissioni che ti ospitano diventano automaticamente nemici».
La querela in Italia è troppo facile.
«Un intellettuale, un giornalista, uno scrittore e un politico non sono due liberi cittadini che si confrontano ad armi pari. Il ministro Salvini o la premier Meloni, che mi hanno querelato, hanno una struttura dietro, un partito che paga gli avvocati, uffici stampa, hanno la possibilità di intervenire nella vita pubblica, hanno l’immunità parlamentare. Io no. Essere inserito nella schiera dei nemici, degli avversari, appena muovi una critica, immiserisce il dibattito. È pericoloso».
Vero, lei non è un politico ma le sue critiche sono politiche.
«Thomas Mann sosteneva che solo nei regimi, una volta cancellate le opposizioni, gli intellettuali restano l’unico contraltare al potere. Io non sono un nemico. Io scrivo libri. L’intellettuale ha solo la parola».
Il potere non è mai andato a braccetto con la critica. Anche in Italia. Ricordiamo Massimo D’Alema che querelò Forattini, per fare un esempio noto e andare a sinistra.
«Ma D’Alema quando andò al governo ritirò la querela. Sangiuliano no. C’è un inasprimento. Da Formigli a La7 non vanno esponenti di governo. I politici si cercano trasmissioni comode. E io sono fiero di essere stato portato in tribunale dal ministro della Cultura».
Addirittura?
«Si perché svelo il tentativo continuo di bloccare gli intellettuali e i giornalisti considerati non amici».
La libertà di critica è in pericolo?
«L’Italia si sta avvicinando sempre di più alla Polonia, all’Ungheria di Orban, alla Serbia. Si sta balcanizzando. In Francia c’è preoccupazione. Come negli Stati Uniti dove il rapporto tra intellettuali, giornalismo e potere è molto diverso. Trump escluso ovviamente. Da noi gli intellettuali critici si sentono sempre più soli».
Torniamo alla sentenza. Il giudice scrive che le sue parole “non sono condivisibili”. Cosa c’entra questo giudizio con il diritto civile?
«È un punto importantissimo della sentenza. Non è un giudizio del giudice ma ricorda che la libertà e il diritto di critica sono protetti dalla Costituzione anche se quelle parole non sono condivisibili».
Ha in corso altre cause con Salvini che ha definito “ministro della malavita” citando Salvemini e con Meloni che, in riferimento alle posizioni sui migranti, ha bollato come” bastarda”. Questa sentenza la lascia più tranquillo?
«No perché tutto ci si può aspettare soprattutto in un clima del genere che non è sereno. Battaglierò al processo. I media sono colonizzati e spaventati soprattutto dalla fragilità economica».
Come giudica la vignetta sulla sorella di Meloni a letto con una persona di colore e il ministro Lollobrigida?
«Difendo il diritto alla satira: quella vignetta aveva tutto il diritto di essere fatta e pubblicata ma non la ho condivisa. La satira va rivolta su chi ha potere ma dal basso verso l’alto e non lateralmente. Sui parenti è meno impattante. E poi ha fatto un favore alla destra. Ha distratto l’attenzione dalla frase gravissima, squallida di Lollobrigida sulla sostituzione etnica».
Il ministro ha detto di non sapere di cosa stava parlando...
«Di sostituzione etnica hanno parlato Meloni e Salvini in campagna elettorale. Adesso che sono al governo si sono messi una maschera. Devono fare la faccia buona a Bruxelles dove chiedono i soldi. Quando sono Roma tornano quelli di sempre: populisti e reazionari. E Lollobriguida è costretto a fare la figura del fesso, dell’ignorante».
Cosa ne pensa del video di Meloni del Primo Maggio e della decisione di non fare conferenza stampa sul decreto?
«Una furbata. Tutti noi comunichiamo con i social, anche io. Ma il premier non è un cittadino né uno scrittore e deve passare all’interno del confronto democratico. Persino Berlusconi agiva diversamente».
Saviano che rimpiange Berlusconi è una notizia.
«Lui voleva convincere e andava anche in luoghi avversi per conquistare. Meloni no, vive nella sua bolla. La tendenza del governo ora è parlare solo alla sua parte, tipico gioco populista».
Il presidente del Senato La Russa non risponde a domande su manifestazioni di destra e saluti romani, dicendo a un giornalista: «Stai zitto ti devi vergognare».
«La destra ha un paura terribile di perdere l’elettorato più attivo che si sente in continuità con la storia fascista. Il tentativo è evidente: vogliono poter dichiarare la Repubblica italiana afascista e non antifascista quale è. La questione fascista, strumentalmente, è considerata storica e quindi chiusa. Ma sanno che da Salò, dal Movimento sociale non possono separarsi perché perderebbero consensi. Per questo La Russa più di tutti, ma anche Meloni, non riesce, non può riconoscere il ruolo dell’antifascismo».
Alemanno addirittura dice con orgoglio: non sono antifascista.
«Perché non si è seduto alla tavola della spartizione del potere. E non deve salvare nemmeno la forma».
Non crederà che possa tornare il regime?
«Certo che no. Ma l’obbiettivo della retorica di questa destra è arrivare ad una Costituzione afascista, senza posizioni preconcette. E questo è molto pericoloso perché apre all’autoritarismo. E in questa destra c’è già stato un cambiamento in peggio. La Lega di Bossi era una Lega antifascista, Salvini ha tutt’altra posizione. Il rischio democratura come nei Balcani è evidente. E evidente da come affrontano il tema dei migranti, delle carceri, della libertà di critica. Sono risposte autoritarie, razziste».
Siamo alla vigilia di una nuova tornata di nomine in Rai e di una nuova lottizzazione politica. Come sempre.
«Vero. Meloni eredita un sistema già malato. Ma la situazione è peggiorata. Non ci sono più nicchie dove difendersi, da dove far sentire voci critiche. L’organizzazione orizzontale che attraversa le reti permette un controllo trasversale. Non c’è più la Rai 3 di Ruffini che mi difendeva. Non sono più i tempi di Tekabul la Serbia è più vicina».
Nelle sue cause ha toccato con mano la lentezza dei processi. Spesso accade che persone accusate di reati gravi, molto più della diffamazione, poi risultino innocenti. Con carriere e vite rovinate.
«L’errore giudiziario raramente viene affrontato. La malagiustizia è un problema gigantesco. Ma non c’è volontà politica di investire nella giustizia e qualunque parte politica voglia mettere mano a una riforma viene considerata un nemico. Ho visto innocenti stare anni e anni con una spada di Damocle sulla testa. Il potere non è mai quando si giudica ma nell’attesa di giudizio». —