la Repubblica, 3 maggio 2023
Morire di solitudine
Vivek Murthy ha dichiarato che negli Stati Uniti, ma forse nel mondo, è in corso «un’epidemia di solitudine». Non un virus, questa volta, ma una condizione psichica e sociale. Murthy è un medico statunitense di origine indiana. Non uno qualsiasi, è Surgeon general of the United States,cioè il “Chirurgo generale”, nominato dal Presidente e confermato dal Senato. La sua carica dura circa quattro anni e per lui è la seconda volta, nel 2014 e nel 2021. È il capo operativo del Public Health Service Commissioned Corps e quindi il principale portavoce in materia di sanità pubblica del governo federale degli Stati Uniti. Ha anche coordinato il comitato Covid-19 di Biden, il quale, lo scorso ottobre, lo ha nominato rappresentante Usa nell’esecutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità.
Perché parliamo di lui? Perché ha appena lanciato un allarme inconsueto. Ha dichiarato, all’interno di una “Strategia nazionale per promuovere la connessione sociale”, che il Paese è colpito da «un’epidemia di solitudine e isolamento». Il tema gli è caro: è del 2020 un suo volume molto apprezzato intitolato (traduco): “Insieme: il potere curativo delle connessioni umane in un mondo fatto di solitudine”. L’ambiziosocri de coeur di Murthy vuole rientrare in un impegno più ampio dell’amministrazione Biden nei confronti dell’emergenza salute mentale.
L’espressione “epidemia di solitudine” mi colpisce. Tocca il cuore, ma al tempo stesso suona quasi vuota. Chi è l’artefice della solitudine sociale? Che rapporto c’è tra solitudine e povertà? E tra solitudine ed emarginazione? In una relazione di circa ottanta pagine Murthy racconta cose che ben sappiamo: circa la metà degli americani adulti vive nella condizione psichica che lui denuncia. Nell’ultima metà del secolo i nuclei familiari single sono raddoppiati. E la pandemia di Covid-19 ha peggiorato la situazione.
L’aspetto più interessante della relazione di Murthy, non è quello psicologico, arcinoto, quanto quello medico (anch’esso noto): le ricerche dimostrano che solitudine e isolamento innescano molteplici problemi al confine corpo-mente. Insonnia, alterazioni immunitarie, patologie cardiache, alimentari, algiche e ovviamente ansia, depressione, dipendenze da alcol e sostanze. Tanto che alcuni esperti stimano che il rischio di morte prematura può aumentare del 30%. «La solitudine», ha detto Murthy, «è come la fame o la sete. Una sensazione che il corpo ci invia quando qualcosa di cui abbiamo bisogno per la sopravvivenza viene a mancare. Ecco il motivo per cui ho lanciato l’allarme». Un appello che può avere presa mediatica, ma che rimane vago se non viene raccolto pragmaticamente dalla politica.
Murthy sa che la solitudine che lo preoccupa è un sintomo del sistema che la produce. Riconoscere un sintomo è sempre un’ottima cosa, ma intervenire su un’epidemia di tale portata prevede azioni radicali e visioni politiche, economiche e sociali. A “dir poco” uno stanziamento di fondi gigantesco, capace di rivoluzionare i principi dell’assistenza sanitaria. Murthy illustra sei pilastri su cui basare la sua proposta di “cura”. Vanno studiati e attuati. Psichiatri, psicologi, psicoterapeuti toccano ogni giorno con mano quanto l’isolamento, l’alienazione, il vuoto culturale e l’indebolimento del sistema individuo-comunità, esitino sempre più spesso in condizioni psicopatologiche e di sofferenza mentale, dai ritiri depressivi alle esplosioni antisociali.
Appena letta la notizia dell’appello di Murthy, ho pensato, pessimisticamente, che l’allarme è più che giustificato, ma la casa ormai in fiamme. In più, “solitudine” è un termine ombrello, indica condizioni emotive e esistenziali variegate e complesse. Partirei dal differenziare la solitudine dall’isolamento, che è invisibilità sociale, disoccupazione, emarginazione, perdita di legame, vuoto di cultura. Per sfidare l’epidemia di solitudine, alla sensibilità di un appello devono seguire soldi e azioni. Azioni dettate da una visione del mondo.