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 2023  maggio 03 Mercoledì calendario

Biografia di Luciana Castellina

Qua è il 1940 ed è compagna di scuola di Anna Maria Mussolini: «Andavo a giocare a Villa Torlonia. La cosa più sorprendente era l’interno della villa: disordinata, sembrava un magazzino». Qua è il 25 luglio 1943, il giorno dell’arresto di Mussolini: «In vacanza per la prima volta a Riccione, stavo giocando a tennis con Anna Maria. Interruppero la partita all’improvviso, la portarono via». Qua invece è il 1967 e si trova ad Atene dopo il golpe dei colonnelli: «Avevano arrestato duemila persone ma nessuno sapeva dove fossero. Venni a sapere che li avevano portati allo Stadio del Phalerion. Con Furio Colombo salimmo su un taxi ma il tassista si rifiutò di spingersi fin lì. Con la scusa di un caffè, lo lasciammo in un bar e prendemmo la macchina. Il giorno dopo mi arrestarono».
Se Luciana Castellina dimostra tanti in meno dei suoi quasi 94 anni, molto si deve alla scelta di avere la Storia come compagna di allenamento. Con il Novecento ha corso, combattuto, giocato a tennis.
Sua mamma era per metà ebrea. Che cosa ricorda delle leggi razziali?
«Avevo zie e cugini che si nascondevano dentro casa, ai Parioli. Ma non sapevo del rastrellamento del Ghetto, di San Lorenzo bombardata. Anzi, non sapevo neanche che esistessero le borgate, la Roma oltre quella che frequentavo. Non sapevo neanche che ci fosse stata la Resistenza, a Roma».
Compagna di scuola di Anna Maria Mussolini, frequentava Villa Torlonia.
«Anna Maria aveva avuto la paralisi infantile ed era molto protetta. Chiedeva qualsiasi cosa e la otteneva. A casa sua c’era una casa sull’albero e poi il cinema, vedevamo i film dell’Istituto Luce».
Vedeva Mussolini?
«Donna Rachele più spesso ma anche lui, qualche volta. Girava per questa villa che dentro era bruttissima, sembrava un magazzino».
Che cosa ricorda del 25 luglio 1943?
«Le guardie del corpo che interrompono all’improvviso la partita di tennis tra me e Anna Maria, a Riccione. “Anna Maria deve venire via subito”, e la portarono via».
Come divenne comunista?
«Nove giorni dopo la Liberazione partecipai con i compagni di scuola a una manifestazione per Trieste italiana. Quelli del Pci ci picchiarono di santa ragione e non capivo il perché. Scoprii solo dopo che era una manifestazione organizzata da un gruppetto di neofascisti, che poi diedero l’assalto alla sede del Pci. Respinto l’assalto, dalla direzione del Pci venne fuori un certo Jacchia, che fece un comizio sulla pulizia etnica nei confronti degli sloveni. Il giorno dopo andai a scuola e cercai questi comunisti».
Chi trovò?
«Citto Maselli. Guidava il circolo culturale del Tasso. Seppe della mia ambizione a diventare pittore (non usa il femminile, ndr) e mi invitò a tenere una conferenza sul cubismo. Avevo quindici anni e quella fu la prima cosa che feci per i comunisti. Mi iscrissi al Fronte della gioventù (l’embrione della Federazione giovanile comunista, ndr) e nel 1947 partecipai a uno scambio di studenti Roma-Parigi; conobbi Sartre e Simone de Beauvoir, vidi la prima esibizione di Juliette Gréco. Qualche mese dopo ero a Praga al Festival della Gioventù, poi in Jugoslavia mi unii ai ragazzi che lavoravano alla ricostruzione della ferrovia Samak-Sarajevo. Tornai a Roma col diploma di “stakanovista”».
L’università?
«Ricordo Marco Pannella. Lui dirigeva i goliardi, io guidavo la lista di comunisti e socialisti. Entrambi candidati alle elezioni universitarie, entrambi eletti. L’esperienza più bella fatta in quegli anni è stata a Primavalle, nelle borgate. Le prostitute, soprattutto: avevano figlie che non facevano mai uscire per paura di consegnarle a un futuro da prostitute a loro volta. Noi dovevamo salvare quelle bambine, le portavamo a giocare a pallavolo».
Il rapporto con gli intellettuali del Pci?
«Per anni non li ho incontrati. Diffidenza reciproca».
Poi ne avrebbe sposato uno, Alfredo Reichlin, nel 1953.
«Quando successe avevo già capito come averci a che fare, con gli intellettuali».
Quante volte l’hanno arrestata?
«Cinque. La prima il giorno dell’attentato a Togliatti, 14 luglio 1948. L’ultima in Grecia dopo il golpe dei colonnelli, nel 1967. Paese Sera mi chiese di andare perché conoscevo Atene. Venni a sapere che le famiglie dei duemila arrestati chiusi allo stadio del Phalerion erano state autorizzate a portare dei pacchi a un commissariato. Mi spinsi fin lì con Furio Colombo e un cameraman Rai, dopo aver preso con l’inganno la macchina a un tassista. Il giorno dopo in hotel trovo una chiamata di Pino Rauti, che all’epoca lavorava al Tempo, ma non lo richiamo. Ancora qualche ora e, uscita dalla doccia, trovo la stanza piena di polizia. Ho giusto il tempo, prima dell’arresto, di inghiottire i foglietti di carta con gli indirizzi dei compagni ricercati. I giornalisti internazionali fecero un appello per la mia liberazione, in cima le firme del New York Times. Poi venni espulsa. Anni dopo, Rauti mi disse che voleva avvertirmi dell’arresto “ma lei non mi ha richiamato...”».
Le carceri italiane?
«Nel ’63 mi arrestarono durante una manifestazione degli edili. La Celere a cavallo aveva assaltato la folla di manifestanti, che cercavano di scappare. La polizia controllava chi avesse le mani segnate dalla calce: chi le aveva era un edile e quindi veniva arrestato. A un poliziotto che stava fermando uno di loro dissi “ma lo lasci andare!”. Portarono via anche me, accusata di resistenza aggravata. Alla maestra che chiese a mia figlia che cosa avesse fatto la mamma, Lucrezia raccontò, in una lettera inviatami a Rebibbia, di aver risposto così: “Non è vero che la mamma ha preso a ombrellate un poliziotto perché non ha l’ombrello, e poi è disombrellata di natura”».
I suoi figli, Lucrezia e Pietro, sono diventati economisti di fama internazionale, lontani dal marxismo-leninismo.
«Erano entrambi giovani comunisti molto impegnati. Poi l’America (sorride, ndr) me li ha rovinati».
Lei è stata protagonista di molte scissioni della sinistra: il Manifesto-Pdup, poi di nuovo nel Pci. Come fu rientrare, nel 1984?
«Berlinguer, ormai in minoranza nel Pci, aveva marcato la distanza dall’Unione Sovietica e rotto il compromesso storico. Le ragioni dello stare separati erano svanite. Anni dopo, quando Occhetto propose lo scioglimento, insieme a Ingrao, Natta e Magri firmai la mozione numero 2, che si opponeva alla fine del Pci».
Ancora scissioni.
«Paolo Flores d’Arcais propose di scrivere una lettera di incitamento ai ragazzi italiani che stavano al fronte in Iraq, dov’era scoppiata la guerra degli Usa contro Saddam. A me disgustava la sola idea che si potesse proporre una cosa del genere. Io e Lucio Magri andammo via mentre i più giovani aderirono a Rifondazione comunista, dove però gli rendevano la vita impossibile. Decidemmo a quel punto di entrare anche noi, io feci il direttore di Liberazione e iniziarono a rendere la vita amara anche a me».
Con Rossana Rossanda siete tornate a scrivere sul manifesto, dopo la rottura che intervenne nell’ultimo periodo?
«Prima in un supplemento interno, “Sbilanciamoci”, poi sul giornale vero e proprio. Ma, a novant’anni compiuti, Rossana voleva convincermi a farne uno tutto nostro».
E lei che cosa rispose?
«Che non avevamo più l’età»