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 2023  maggio 03 Mercoledì calendario

Biografia di Eleonora Daniele

«Io quella casa la sogno ancora oggi». Per capire chi sia Eleonora Daniele, serve più che mai partire dal suo passato, dalla casa dei suoi genitori, nella campagna veneta, dove è cresciuta, ultima di quattro fratelli. «C’era un glicine enorme in giardino, molto bello. Io e mio fratello Luigi ce ne stavamo spesso lì sotto... venderla è stato un dolore enorme, se potessi tornare indietro vorrei tanto salvarla».
Come mai avete dovuto farlo?
«Mio fratello Luigi (morto nel 2015, a 44 anni, ndr.) era autistico. Le famiglie che conoscono la disabilità devono fare fronte a grandi difficoltà, anche economiche: mio padre non aveva avuto scelta, ma ha molto accusato questa decisione. La sensazione per tutti è stata quella di vedersi portare via le radici. Ma serviva anche un posto comodo, più vicino al centro, dove mio fratello potesse essere seguito meglio. Era l’unica decisione da prendere».
Come era la sua famiglia?
«Mia mamma è stata brava, ma ha molto sofferto la condizione di mio fratello. Mio padre, che era davvero innamorato di lei, si è sforzato per non perdere mai il sorriso, nonostante le difficoltà. E quindi era un sole. Ripeteva che il Signore dà la croce a chi la sa portare e, di fatto, ha tenuto unita questa famiglia, dandole molta stabilità, come solo un equilibrista saprebbe fare. È stata una figura determinante per me: lui e mia madre mi hanno insegnato la resilienza».
E lei? Che bambina era?
«Ero molto silenziosa, osservavo tutto. In una famiglia che affronta la disabilità è come se tutti fossero un ingranaggio, per certi versi: se salti tu, salta tutta la giostra. In tutto questo mio padre è stato un grande riferimento: non si è mai tirato indietro rispetto a tutte le sfide e non ha mai perso il sorriso. A 70 anni si era rimboccato le maniche e aveva iniziato un nuovo lavoro pur di portare i soldi a casa».
Quali erano i suoi sogni, in quel periodo?
«Volevo fare la maestra. In pratica volevo continuare a studiare. Ero molto brava a scuola, ma sempre per motivi economici non ho potuto andare all’università e ho dovuto iniziare a lavorare. Avevo 19 anni. Dover abbandonare quel mio sogno mi dava molta rabbia, anche se capivo le motivazioni. Negli anni, molto dopo, mi sono iscritta a Scienze della comunicazione e, dopo ancora, mi sono riscritta a Psicologia, sono al secondo anno».
Come è arrivato lo spettacolo nella sua vita?
«Lavoravo in banca ma ogni tanto mi chiamavano degli show room del posto, per fare l’indossatrice. Poi, un’emittente locale mi scelse per fare delle interviste in video. Del tipo: c’è Renato Balestra che fa l’ospite in un locale, vai a intervistarlo. Avevo un accento veneto che poi, molto tempo dopo, ho tolto solo dopo cinque anni di dizione. Ma mi pagavano un sacco, almeno in proporzione, cioè rispetto a quello che prendevo in quegli anni».
C’è qualche incontro di quegli anni che ricorda in particolare?
«Mi viene in mente una delle mie prime interviste, a Nicoletta Orsomando, che per me era una specie di mito. Comunque non ho mai cercato questo mestiere, è arrivato».
La bellezza ha contato?
«Sono cresciuta con la sindrome del brutto anatroccolo».
Ecco, questo però è poco credibile.
«Ma è vero: venivo spesso presa in giro per il mio corpo. Ero molto magra, a volte mi mettevo addirittura due paia di pantaloni per sembrare più grassa: una tuta nera sotto i jeans per avere qualche forma in più. Poi mi coprivo le braccia, magrissime. Insomma, mi vergognavo. Non bastasse, anche che i ragazzi mi chiamavano Olivia o “alicetta”... mi dicevano che le mie sorelle, che hanno dieci anni più di me, erano belle e io no. Insomma, davvero, sono stata considerata per anni come una delle più bruttine della scuola».
Quando hanno iniziato a cambiare le cose? Ricorda il momento?
«Durante l’adolescenza qualcuno aveva cominciato a portarmi timidamente una mimosa il giorno della festa delle donna, ma non erano mai quelli che piacevano a me: con loro non avevo speranze».
Eppure poco dopo arrivò Miss Italia.
«Arrivavo sempre seconda. E succedeva sempre qualche imprevisto, ogni volta che dovevo partecipare alle selezioni. A me o ad altri: si apriva una possibilità ma dovevo arrivare il giorno dopo in Sardegna, per dire. Poi ho partecipato al concorso nazionale come Miss Veneto, a Salsomaggiore».
La svolta però è arrivata con il «Grande Fratello». Era il 2001.
«Prima avevo lavorato come comparsa a “La sai l’ultima?”, con Gigi Sabani e Natalia Estrada, ma ancora credevo fossero esperienze momentanee: continuavo a lavorare in banca. C’era una mia collega che seguiva il “Grande Fratello” accanitamente e ricordo che pensavo fosse pazza per appassionarsi a quel programma. Non capivo il fenomeno. Poco tempo dopo mi sono presentata comunque ai provini».
Presa. E da lì la sua vita è cambiata.
«Subito dopo ho iniziato a fare le telepromozioni, per un paio d’anni. In quella occasione incontrai Mara Venier e fu molto carina con me: nelle promozioni mi avevano dato un altro nome, ma lei disse che non ero sbucata dal nulla, quindi dovevano chiamarmi con il mio nome. Una piccola cosa, ma importante».
Come fu visto nella sua famiglia questo grosso cambiamento nel suo percorso?
«Mio padre aveva qualche timore. Era un uomo legato alle vecchie tradizioni: per lui lo spettacolo era un mondo fatto di luci e pochi contenuti... in un certo senso potrebbe essere stato il padre di Checco Zalone nel film in cui gli ricorda l’importanza del posto fisso... lo ha fatto anche con me, che a vent’anni avevo il mio lavoro in banca. Non voleva, insomma, che partecipassi al reality. Per me, piuttosto, aveva altri progetti».
Quali?
«Avrebbe voluto che io facessi una bambina. Voleva diventare nonno di una nipotina».
E una nipotina è arrivata.
«Molto dopo, lui era morto. Infatti dico che Carlotta è il regalo di mio papà. L’ho avuta da grande, avevo 43 anni. Dei ginecologi mi avevano molto spaventata circa la possibilità di avere figli sopra i 40 anni, fino a quando ho incontrato la mia che mi disse che era pieno di donne della mia età che desideravano avere il primo figlio».
Prima non li voleva?
«No, anzi. Avevo avuto anche dei mezzi litigi con chi sembrava non credere alla possibilità che una donna non volesse per forza avere figli. La mia è poi arrivata in maniera naturale ma prima non solo non l’avrei voluta ma, a 20 anni o a 30 anni, non sarei nemmeno riuscita a gestirla. Ho avuto delle compagne che già al liceo erano diventate mamme, ma io non ho mai provato questo desiderio. Se non una volta superati i quaranta. Ma per buona parte della mia vita non pensavo che avrei avuto figli. Carlotta è un piccolo regalo del cielo».
Lei è credente?
«Da quando mio padre se ne è andato via sento sempre la sua presenza vicino a me, per me è una specie di angelo custode. Non sono una credulona, ma ho avuto sensazioni molto forti e profonde, di una sua grande vicinanza. Ma anche la fede rappresenta per me un percorso: ho avuto un momento di crisi, in cui ho messo tutto in discussione».
Quando è successo?
«Sicuramente nella sofferenza che accompagna la disabilità ci sono dei momenti in cui ti fai tante domande. Mio fratello aveva delle crisi molto violente: ho assistito a situazioni davvero faticose. Lì sono arrivata a non credere, a mettere in crisi tutto. Ma è la ricerca stessa di Dio, credo, che determina la tua fede. Io l’ho ritrovata nella comprensione di quello che ci circonda. Oggi, mi considero una cristiana. Lo sforzo è cercare di saper distinguere quando stai vivendo qualcosa di bello e saperne gioire. Sto cercando di modificare il mio carattere, in questo senso. Il mio perfezionismo non mi ha aiutata».
In cosa si traduceva questo perfezionismo?
«Non ho mai avuto la volontà di primeggiare, ma, piuttosto, era come se dentro di me pensassi che c’era sempre qualcuno meglio di me. Questo mi ha portata a soffrire di una continua ansia da prestazione: non mi accontento mai di me stessa, cerco la perfezione che però non è plausibile».
C’è qualcuno che l’ha aiutata a sentirsi più a suo agio nel suo ambiente?
«Sono molto affezionata a Luca Giurato. Ho vissuto con lui gli anni di Unomattina e mi ha insegnato che si può essere leggeri pur parlando di cose serie. Mi ha fatto conoscere questa doppia cifra, che aiuta quando fai intrattenimento. Tra noi era nata una complicità molto bella, ogni tanto lo chiamo anche oggi. Mi è rimasto molto nel cuore».
Altri incontri che le sono rimasti nel cuore?
«Gina Lollobrigida. Quando l’ho conosciuta la prima volta mi sono molto emozionata. Ed ero impressionata: una donna come lei, che aveva vissuto tutto quello che aveva vissuto, che aveva conosciuto chiunque, con mille possibilità, restava una persona assolutamente eclettica e, soprattutto, una donna indipendente, padrona di sé stessa. Per me questo suo animo è stato un grande insegnamento oltre che un esempio di emancipazione».
Crede che le donne debbano ancora faticare molto per raggiungere l’obiettivo della parità?
«Le donne sono vittime di continui pregiudizi e delle sottoculture maschiliste che ancora esistono. Anzi, con i social stanno dilagando. La donna deve splendere per sé stessa, che non significa altro se non essere sé stessa, a prescindere da quello che gli altri vorrebbero. Per me è questo il principio fondamentale da cui dovrebbe partire la rivoluzione di ognuna di noi».