Corriere della Sera, 3 maggio 2023
Il potere neutro della Repubblica
Nel triangolo di magnifici palazzi che circonda la Fontana dei Dioscuri, in cima al colle del Quirinale, opera quello che potremmo definire il «potere neutro» della nostra Repubblica. Il copyright di questa formula appartiene all’abate Sieyès, non a caso considerato dal pensiero liberale come «l’inventore del sistema rappresentativo» alla fine del Settecento. Di fronte alle convulsioni della Rivoluzione francese, Sieyès si pose infatti il problema di come limitare il «potere illimitato» della «volontà generale» di Rousseau, per mitigare i pericoli di dispotismo insiti in quella nuovissima forma di governo che era allora la democrazia. All’inizio pensava a un «giurì», a un arbitro, che vegliasse «con fedeltà alla salvaguardia del deposito costituzionale», moderasse le tensioni e i conflitti tra potere esecutivo e legislativo, e agisse «al riparo da passioni funeste». Poi, con la Restaurazione, gli sembrò che un monarca costituzionale potesse assolvere alla stessa funzione. È dunque facile vedere nella presidenza della Repubblica e nella Consulta gli eredi moderni di tale discendenza liberale. E i vantaggi che essi offrono alla democrazia sono stati di nuovo evidenti in queste settimane. Il capo dello Stato Sergio Mattarella si è infatti impegnato con numerosi discorsi in una vera e propria pedagogia costituzionale, mettendo in relazione tra loro i due grandi dibattiti che hanno chiamato in causa le radici e lo spirito della Repubblica: quello sulla Resistenza antifascista in Italia e quello sulla guerra di resistenza in Ucraina.
«l a furia bellicista russa», ha detto il presidente con un linguaggio che non lascia spazio all’ambiguità, ripropone infatti all’Europa la minaccia di una «esasperazione nazionalistica che pretende di violare confini, di conquistare spazi territoriali». Il parallelo storico non può che essere con l’espansionismo nazista: «Come dimenticare la vicenda dei Sudeti e della Conferenza di Monaco, che aprirono la via alla Seconda guerra mondiale?».
Ecco perché il solenne impegno «ora e sempre Resistenza», che Mattarella ha ripetuto a Cuneo, si invera oggi nel «sostegno all’Ucraina finché è necessario, finché occorre, sotto ogni profilo; di forniture militari, finanziario, umanitario. Se infatti l’Ucraina fosse lasciata alla mercé di questa aggressione, altre ne seguirebbero».
Il presidente ha così corretto sia i goffi tentativi da destra di separare la Repubblica dalla Resistenza («Se volete andare in pellegrinaggio nel luogo dove è nata la nostra Costituzione, andate sulle montagne dove caddero i partigiani», ha detto citando Piero Calamandrei); sia l’ipocrita agitazione da sinistra di chi si dichiara fiero della nostra guerra di Liberazione ma vorrebbe negarne il diritto al popolo ucraino.
In questo modo Mattarella ha ancorato la lotta politica alle fondamenta della Repubblica: la sua derivazione dalla guerra antifascista, la sua collocazione nel campo delle democrazie europee.
Seppure su tutt’altro piano, anche la Corte Costituzionale ha più volte dato prova di una funzione «moderatrice», mettendo i principi fondamentali della nostra Carta al riparo della dialettica tra maggioranza e opposizione «pro tempore». L’ultimo caso ha riguardato la spinosissima vicenda di Alfredo Cospito, che né il governo, che risponde al consenso elettorale, né la magistratura, che risponde alla legge ordinaria, avrebbero potuto risolvere. Una soluzione l’ha invece offerta la Consulta, dichiarando incostituzionale quella norma del codice penale che impediva al giudice di considerare le attenuanti nel processo per l’anarchico condannato all’ergastolo, aprendo le porte a uno sconto di pena e interrompendo così il suo sciopero della fame.
Il «potere neutro», attingendo alla legge fondamentale e sovraordinata a tutte le altre che è la Costituzione, può insomma sciogliere nodi che le espressioni della sovranità popolare non sono sempre in grado di sciogliere. E non è forse un caso se l’attuale inquilino del Quirinale provenga dal palazzo di fronte, dove ha servito come giudice costituzionale.
Si potrebbe essere tentati, in base a questo ragionamento di giungere a una conclusione politica: è meglio che a eleggere il capo dello Stato sia il Parlamento e non direttamente il popolo, perché una scelta così politicizzata potrebbe ridurre la «neutralità» del suo ruolo e vanificare il vantaggio della sua figura come prevista dalla Costituzione. Ma non sarebbe una conclusione così logica come appare. Intanto perché anche il Parlamento potrebbe compiere una scelta sbagliata o di parte, puntando su una personalità non in grado di rappresentare la continuità della storia repubblicana. Per fortuna finora non è accaduto, ma potrebbe succedere. L’ultima volta, del resto, le Camere non sono state in grado di trovare un presidente che desse garanzie a tutti, e così hanno confermato quello uscente.
Bisogna anche tener conto che Mattarella è facilitato nello svolgere questo ruolo dal fatto di provenire dalla cultura politica cattolico-democratica, co-fondatrice della Repubblica e protagonista assoluta del suo primo quarantennio; dunque più di altri sa muoversi a proprio agio nella continuità istituzionale con le origini e la collocazione internazionale dell’Italia repubblicana. Non è detto, anche per questioni anagrafiche, che il prossimo capo dello Stato potrà vantare lo stesso pedigree democratico.
Dunque l’elezione indiretta non ci mette al riparo dai rischi. E d’altro canto l’elezione diretta ha dimostrato in passato, per esempio in Francia, di poter dare vita a presidenze che interpretavano l’unità della nazione, quasi come «monarchie repubblicane», nei casi di de Gaulle e Mitterrand. Mentre al contrario collegi caratterizzati da cariche a vita e dunque teoricamente più indipendenti, come la Corte Suprema statunitense, hanno subito un processo di politicizzazione nefasta per la loro credibilità e neutralità.
Ciò che forse danneggerebbe di più la funzione essenziale dei «poteri neutri» sarebbe piuttosto l’estemporanea idea, che però gira nei circoli «presidenzialisti», di eleggere direttamente il capo del governo invece che il capo dello Stato. La si presenta come una soluzione di compromesso, dunque di moderazione. Ma in realtà rischierebbe di evaporare la legittimazione del presidente della Repubblica, di fronte a un leader dell’esecutivo investito dalla volontà popolare. Il che non sarebbe consigliabile per una democrazia come la nostra, così giovane e così contrastata da numerosi contestatori interni.