la Repubblica, 30 aprile 2023
I 75 anni di Israele
Immaginiamo un suono di cornamuse. È la sera del 14 maggio 1948. Sta per nascere lo Stato di Israele. Nelle antiche strade della Città Vecchia, la struggente melodia annuncia la partenza dei soldati britannici, che hanno occupato Gerusalemme per trent’anni. Alle finestre delle abitazioni o sulle soglie delle sinagoghe, vecchi dalle grandi barbe bianche osservano la sfilata militare. I loro antenati hanno visto partire molti altri occupanti: assiri, babilonesi, persiani, crociati, arabi, turchi. Ora tocca agli inglesi. Quando l’ultimo distaccamento di soldati giunge davanti all’arco di una casa in pietra, il plotone si arresta. Un ufficiale bussa al portone, gli apre il rabbino Mordechai Weingarten. «Dall’anno 70 dopo Cristo fino a oggi, nessuna chiave di Gerusalemme è stata nelle mani degli ebrei», dice l’ufficiale. «Oggi è la prima volta in quasi venti secoli che il vostro popolo ottiene questo previlegio». E gli consegna la chiave della porta di Sion, una delle sette porte della Città Santa. Il rabbino risponde: «Che tu sia benedetto, o Iddio che ci hai concesso di vivere questo giorno. Accetto questa chiave in nome del mio popolo». Ma mentre l’ufficiale britannico fa dietrofront e scendono le luci del crepuscolo, un nuovo rumore, sordo e minaccioso, subentra al suono delle cornamuse: il crepitio della fucileria. Ancora una volta Gerusalemme sta per diventare un campo di battaglia. Le sue mura apparterranno soltanto a chi saprà conquistarle.
L’anno prossimo a Gerusalemme
L’episodio raccontato da Dominique Lapierre e Larry Collins nel libro Gerusalemme! Gerusalemme! fotografa l’inizio di un conflitto durato fino ai giorni nostri, attraversando l’intera storia del moderno Stato di Israele, che in questi giorni compie 75 anni di vita. Una storia le cui radici partono dall’Antico Testamento, il libro che narra l’esodo del popolo ebraico fino alla Terra Promessa e, tra il 900 e l’800 avanti Cristo, l’avvento del regno di Israele di re Davide e re Salomone. Quel testo costituisce anche la prima parte della Bibbia dei cristiani, ma i primi padri della Chiesa, nell’ardore di convertire le masse pagane, si sforzarono di sottolineare la differenza che separava la nuova fede dal giudaismo, piuttosto che metterne in evidenza i legami: tacendo che Gesù era ebreo e che l’Ultima cena è una celebrazione della Pasqua ebraica. In seguito, gli imperatori romani convertiti condannano gli ebrei alla segregazione. L’Impero di Bisanzio li mette fuori legge. Gli Stati europei negano loro il diritto alla proprietà. Nel 1215 la Chiesa di Roma li obbliga a portare un marchio per distinguerli dalle altre razze. I re di Francia eInghilterra sequestrano i loro beni. In Russia viene coniata una parola che diventerà di uso comune per descrivere i massacri di comunità ebraiche: pogrom. Poi viene l’Olocausto. Soltanto nel 2000, durante il suo pellegrinaggio a Gerusalemme, papa Giovanni Paolo II afferma che gli ebrei sono «i fratelli maggiori» dei cristiani, porgendo pubbliche scuse per il ruolo della Chiesa in venti secoli di antisemitismo.
Poco più di cent’anni prima dello storico viaggio di Wojtyla in Terra Santa, l’ingiusta condanna di un ufficiale francese di origine ebraica mette in moto la resistenza a questo odio millenario. Tra la folla che assiste alla degradazione di Alfred Dreyfus nel cortile della École Militaire di Parigi, nel 1894, c’è un giornalista viennese, anch’egli un ebreo assimilato, cioè perfettamente integrato nella società del suo Paese, fino a quel momento indifferente a questioni di razza e di religione. Si chiama Theodor Herzl. Quel giorno capisce che il vulcano dell’antisemitismo non si sarebbe mai spento e gli ebrei avrebbero potuto sopravvivere solo diventando una nazione. Rientrato a Vienna, due anni dopo pubblica il manoscritto Lo Stato ebraico e fonda il movimento sionista, dal nome del monte Sion che sorge al centro di Gerusalemme. Per duemila anni gli ebrei della diaspora disseminati a ogni angolo della terra hanno pregato con l’invocazione: «Se ti dimentico, Gerusalemme, che mi si mozzi la mano destra!»; e a ogni Pasqua, hanno ripetuto la promessa solenne di ritrovarsi «l’anno prossimo a Gerusalemme», il desiderio di tornare a casa, prima o poi, nonostante ogni ostacolo. E quale poteva essere la loro casa? Dopo varie ipotesi, i sionisti scelgono la terra degli avi, la Terra Promessa dell’Antico Testamento, da dove non se ne erano mai andati del tutto: nel momento in cui Herzl assiste all’umiliazione di Dreyfus, trentamila dei cinquantamila abitanti di Gerusalemme sono ebrei.
Sotto le pressioni del movimento sionista, nel 1917 il ministro degli Esteri britannico Arthur Balfour dichiara che il governo di Sua Maestà «considera favorevolmente la creazione di un focolare nazionale per il popolo ebraico in Palestina», all’epoca una colonia del Regno Unito. L’annuncio moltiplica l’immigrazione ebraica nella regione. Gli arabi cominciano ad aggredire gli ebrei, con i quali fino ad allora avevano vissuto in relativa armonia. Gli ebrei si difendono e aggrediscono a loro volta gli arabi. È una lenta, progressiva guerra civile. Durante la Seconda guerra mondiale il Gran Muftì di Gerusalemme, Mohammed Said Haj Amin al Husseini, più alta autorità religiosa islamica nella Palestina britannica, si rifugia a Berlino, appoggia la Germania nazista, incontra Hitler, pensando che la vittoria tedesca libererà il suo popolo di due nemici in un colpo solo: gli ebrei e i britannici.
Ma i nazisti perdono la guerra, Hitler si suicida, il Muftì fugge e una terribile scoperta contribuisce a rafforzare l’idea di un “focolare nazionale ebraico”: l’orrore dell’Olocausto. Si profila così una soluzione “salomonica”: dividere la Palestina britannica fra i due litiganti. Il pomeriggio del 29 novembre 1947 i rappresentanti di 56 Paesi delle neonate Nazioni Unite si riuniscono a New York per votare la risoluzione numero 181. Essa prevede che una terra due volte più piccola della Danimarca, cinque volte meno popolosa del Belgio, venga spartita formando due Stati distinti, uno per gli ebrei e uno per gli arabi. Il 57 per cento del territorio verrebbe assegnato agli ebrei, sebbene fino a quel momento siano più numerosi gli arabi. Il Muro del Pianto, il Santo Sepolcro e la Moschea della Roccia, luoghi santi delle tre religioni monoteistiche, dentro le mura della Città Vecchia di Gerusalemme, sarebbero sotto controllo internazionale. La risoluzione passa con 33 voti favorevoli, tra cui quelli di Stati Uniti e Unione Sovietica, 13 contrari e 10 astenuti. Le delegazioni arabe lasciano l’aula per protesta. Si lamentano di essere chiamate a pagare un prezzo per la cattiva coscienza dell’Europa nei confronti dell’Olocausto: perché non sono gli Stati europei a offrire agli ebrei una terra, visto che sono loro ad averli sterminarti nei lager? Scoppierà una guerra, avverte il rappresentante arabo, cugino del Gran Mutfì che aveva abitato nella Berlino di Hitler, e gli eserciti dell’intero mondo arabo getteranno a mare gli ebrei.
Alla mezzanotte del 14 maggio 1948, David Ben Gurion pronuncia la dichiarazione di indipendenza. La nuova nazione si chiamerà Israele, dice il suo fondatore, dal termine biblico che appare nel libro della Genesi, quando Dio cambia nome a Giacobbe chiamandolo appunto Israele, capostipite degli israeliti, la stirpe che governerà la Terra Promessa. Qualcuno ritiene che la dichiarazione d’indipendenza debba indicare le frontiere del nuovo Stato, seguendo il tracciato indicato dalle Nazioni Unite. Ben Gurion dissente. Considera quelle frontiere in più punti indifendibili, nella prospettiva ormai evidente di una conflittualità prolungata con gli arabi. Del resto, afferma, gli arabi hanno respinto il compromesso sulla partizione. «Lo Stato che proclameremo al termine della guerra – conclude – non nascerà da una risoluzione dell’Onu, bensì da una situazione di fatto».
Gli eserciti di cinque Paesi arabi attaccano gli ebrei, ma a prevalere sono questi ultimi, meglio armati e più determinati. Quando le due parti proclamano il cessate il fuoco, Israele si ritrova con uno Stato più ampio del territorio che le avrebbe assegnato il Palazzo di vetro, pur senza riuscire a prendere la Città Vecchia di Gerusalemme. In quella che gli ebrei chiamano la loro “guerra d’indipendenza”, e che gli arabi chiameranno “
nakba”,
la tragedia, Israele ha avuto più di 6mila vittime fra soldati e civili: in proporzione, più morti di quanti ne ebbe la Francia nella Seconda guerra mondiale. Alle migliaia di perdite arabe vanno aggiunti 700mila palestinesi costretti a evacuare le zone conquistate da Israele: finiranno in campi profughi sparsi per il Medio Oriente. Restano in mano araba, tuttavia, Cisgiordania e Gaza: per i successivi vent’anni, la prima apparterrà alla Giordania e la seconda all’Egitto. Ma i governi di Amman e del Cairo non le offrono ai palestinesi, affinché ne facciano una patria: le tengono per sé.
Otto anni dopo scoppia un’altra guerra, per il possesso del canale di Suez, nazionalizzato dall’Egitto: alleate degli inglesi, le forze israeliane avanzano verso il Cairo, finché l’America ferma tutti per evitare un conflitto con l’Urss. I Paesi arabi cercano di prendersi la rivincita nel 1967, mobilitando i propri eserciti alla frontiera, ma Israele lancia un formidabile attacco preventivo: distrugge a terra tutta l’aviazione nemica, penetra in territorio avversario a Sud e a Nord. In appena sei giorni la guerra è finita. Un leggendario generale israeliano con la benda all’occhio, Moshe Dayan, guida le operazioni insieme al capo di stato maggiore Yitzhak Rabin. Quest’ultimo riceve il compito di dare un nome al conflitto, come riconoscimento della sua eccezionale abilità strategica. Circolano varie proposte: la Guerra del coraggio, la Guerra della salvezza. Rabin sceglie la Guerra dei sei giorni, evocando i sei giorni della creazione secondo la Bibbia. La guerra, in effetti, ha ricreato Israele, che si allarga all’intera penisola del Sinai, a tutta la Cisgiordania, alle alture del Golan, al confine con la Siria e alla Città Vecchia di Gerusalemme. La foto di due parà israeliani che guardano commossi il Muro del Pianto diventa emblematica: lo Stato ebraico ha di nuovo quel che resta del tempio di re Salomone. Ma oltre che della terra, Israele si impadronisce dei milioni di arabi che la abitano. Per rafforzare il controllo sui palestinesi sconfitti e ostili, il governo israeliano approva la costruzione di insediamenti civili in Cisgiordania e Gaza: le “colonie ebraiche”, come verranno chiamate dalla comunità internazionale, che l’esercito protegge con strade speciali e posti di blocco. Nei Territori occupati, come da allora la diplomazia internazionale definisce Cisgiordania e Gaza, comincia così a crescere un sentimento che fra il ‘48 e il ‘67, quando facevano parte di Giordania ed Egitto, era debole o carente: la determinazione palestinese ad avere uno Stato. Trascorrono altri sei anni e, nella guerra dello Yom Kippur, scatenata dai Paesi arabi con un attacco a sorpresa nel giorno più sacro del calendario religioso ebraico, Israele per alcuni giorni rischia di soccombere: quindi contrattacca e, con un altro generale, Ariel Sharon, benda sulla fronte per una ferita, arriva a 100 chilometri dal Cairo.
Nel 1982, il medesimo Sharon guida gli israeliani fino a Beirut per mettere fine alle incursioni dell’Organizzazione per la Liberazio ne della Palestina capeggiata da Yasser Arafat, così costretto a rifugiarsi a Tunisi: una milizia cristiano-maronita alleata di Gerusalemme massacra i palestinesi dei campi profughi di Sabra e Shatila, senza che Sharon intervenga, secondo alcuni con la sua complicità.
La guerra del ’48, la guerra del ’56, quelle del ’67 e del ’73, l’invasione del Libano nel 1982, negli anni 90 la prima Intifada, la rivolta palestinese con le pietre, nei primi anni Duemila la seconda Intifada, i terroristi kamikaze alle fermate dei bus, poi le guerre contro Gaza, dopo il ritiro israeliano dalla Striscia nel 2005, e avanti così, fra attentati e rappresaglie, fino ai giorni nostri. Tutte insieme fanno la guerra più lunga che il mondo moderno abbia conosciuto. Ed è una guerra fra nemici che si contendono lo stessoclaustrofobico spazio: nel punto più stretto, all’altezza del Ben Gurion, suo unico aeroporto internazionale, Israele è larga appena 12 chilometri.
Il processo
Negli anni in cui ho vissuto in Israele, dal 1997 al 2003, mi è capitato di incontrare persone con i numeri sul braccio: il marchio di identificazione che i nazisti imprimevano ai prigionieri dei campi di concentramento. Vederli sorridere, giocare con un nipotino in un parco, mangiare un piatto con gusto al ristorante, mi trasmetteva un senso di meraviglia e ammirazione. Non solo erano riusciti a sopravvivere all’orrore più grande conosciuto dall’umanità, ma avevano anche saputo rifarsi una vita, apparentemente normale. Che forza e che coraggio straordinario ci volevano! Ma non c’è stato sempre un sentimento di ammirazione e di orgoglio, in Israele, per i superstiti della Shoah. Da un lato, alcuni provavano la vergogna di essere sopravvissuti: perché io sono vivo e i miei familiari, amici, compagni di sventura sono morti? Dall’altro lato, i sionisti che si erano lasciati alle spalle la buia Europa dei ghetti per costruire un proprio Stato nella luce della Terra promessa mediorientale non si riconoscevano negli ebrei trucidati nei lager: i pionieri che avevano forgiato con la zappa e con il fucile uno stato indipendente sentivano di appartenere a un nuovo tipo di ebrei. “Pecore al macello” è stata a lungo l’espressione per identificare le vittime della Shoah: quasi ci fosse una qualche loro corresponsabilità nello sterminio, una mitezza, come quella delle pecorelle, che aveva impedito di ribellarsi. È una falsa immagine, smentita da tanti resoconti sulle ribellioni di partigiani ebrei contro i nazifascisti durante la Seconda guerra mondiale. Ma niente ha cambiato la percezione della Shoah in Israele e nel mondo come il processo del 1961 a Adolf Eichmann, il criminale di guerra nazista responsabile del trasporto degli ebrei nei lager, catturato dal servizio segreto israeliano in Argentina, trasportato clandestinamente in Israele e lì processato, condannato, impiccato: l’unica condanna a morte eseguita nei 75 anni di esistenza dello Stato ebraico. La cattura e il processo di Eichmann hanno infatti messo sul banco degli imputati non soltanto il nazismo, come aveva già fatto il Processo di Norimberga ai gerarchi del Terzo Reich, bensì l’antisemitismo in quanto tale: un antisemitismo che poteva avere anche i modi e il volto in apparenza pacifici di un uomo che per difendersi diceva «Io non odio gli ebrei, ho soltanto eseguito gli ordini». Quella che la filosofa Hannah Arendt, in un reportage per il
New Yorker
diventato proverbiale, descrisse come “la banalità del male”. Nel 2012, sessant’anni dopo il processo, il Mossad organizza al Museo del Popolo Ebraico di Tel Aviv una mostra sulla cattura dell’architetto dell’Olocausto. «Fino al processo di Eichmann, in Israele nessuno parlava apertamente degli orrori dell’Olocausto», ammette Ahinoam Armoni, direttore del museo. «Molti sopravvissuti tacevano, perfino con i propri figli. La cattura e il processo sono stati come l’apertura di una diga per noi. Io stesso sono cresciuto dicendomi: non sono un ebreo, sono israeliano. Di colpo, da quel momento, siamo stati in grado di confrontarci con la nostra storia».
Vivere con il terrorismo
Bisogna trascorrere un po’ di tempo nello Stato ebraico per comprendere cosa significhi vivere sotto una continua minaccia. Durante la Seconda Intifada, ogni volta che andavo a cena fuori, sceglievo se possibile un tavolo nella parte più isolata del ristorante, quella con meno clienti, dove un possibile terrorista suicida avrebbe avuto meno interesse a farsi esplodere o a nascondere una bomba, in modo che i miei familiari ed io avessimo una chance in più di salvarci. Piccoli accorgimenti di vita quotidiana, che a chi vive in un’altra realtà sembrano un peso insopportabile: ma gli israeliani hanno imparato a conviverci. Nessuna nazione al mondo ha dovuto affrontare la minaccia del terrorismo tanto a lungo. Attacchi avvenuti non solo sul proprio territorio, ma ovunque nel mondo si trovassero cittadini e possibili bersagli israeliani o ebraici. Ci sono stati attentati contro sinagoghe, aerei, navi, sedi diplomatiche e di aziende, fermate dei treni e degli autobus, ristoranti, bar, discoteche, supermarket, centri commerciali o semplicemente strade affollate di uomini, donne e bambini, come avvenuto quest’anno alla vigilia di Pasqua, quando un turista italiano è stato ucciso da un terrorista sul lungomare di Tel Aviv. Per la stessa ragione, nessun altro Paese ha accumulato una esperienza simile nel combattere il terrorismo.
Uno degli attacchi terroristici più eclatanti è quello lanciato da un commando palestinese alle Olimpiadi di Monaco del 1972, in cui muoiono 11 atleti israeliani. Sia pure con riluttanza, la premier Golda Meir autorizza l’Operazione Furore di Dio, per individuare e uccidere i responsabili dell’attentato, dovunque si trovino. Dopo il processo a Eichmann e la vittoria nella Guerra dei Sei Giorni, un senso di euforica sicurezza si era diffuso per Israele, come se i fantasmi del passato, l’antisemitismo, l’Olocausto, fossero vinti per sempre. L’attentato di Monaco fa precipitare di nuovo gli israeliani nello sconforto. Anche per questo Golda Meir ordina una risposta esemplare. Fra le missioni affidate alle forze speciali e al Mossad, c’è quella di uccidere tre palestinesi a Beirut. Un commando israeliano sbarca in Libano. Li guida un pluridecorato ufficiale di nome Ehud Barak. Molti anni dopo, quando Barak è già un ex primo ministro, gli domando se davvero quella notte a Beirut, per non farsi riconoscere, lui e i suoi compagni si erano travestiti da donna. «Certo, non è qualcosa che si può dimenticare, sa?», mi risponde. «Voglio confidarle una cosa. Quando fui nominato capo di Stato Maggiore delle forze armate israeliane, una delle nostre donne- soldato, con i gradi di tenente, mi accolse nel mio nuovo ufficio per illustrare come funzionavano le comunicazioni. Le chiesi come si chiamava di cognome e rispose: “Romano”. Domandai se era parente di Yossef Romano, uno degli atleti israeliani trucidati dai terroristi palestinesi alle Olimpiadi di Monaco. “Sono la figlia”, rispose. Erano ebrei di origine italiana, come suggeriva il nome. Suo padre, un campione di sollevamento pesi, aveva tentato di disarmare i terroristi, era stato uno dei primi a essere ucciso e il suo corpo mutilato fu lasciato sul pavimento dell’appartamento in cui si trovavano gli israeliani, come monito agli altri membri della squadra di non provare a ribellarsi. Ebbene, in quel momento avrei voluto abbracciare la soldatessa, la figlia di Romano, dirle che ero stato io a fare giustizia degli assassini di suo padre. Ma all’epoca il mio ruolo in quella missione era ancora coperto dal segreto di Stato e dunque tacqui».
I critici dell’operazione Furore di Dio la condannano come una campagna di assassinii politici, resa ancora più problematica, in un episodio in Norvegia, dall’uccisione della persona sbagliata. Ricorda Aron Yariv, un generale israeliano a capo dell’operazione: «Mandare un commando a uccidere era moralmente accettabile? Questo può essere discutibile. Ma era politicamente necessario? Assolutamente sì. Non avevamo altra scelta, se volevamo provare a impedire che azioni del genere si ripetessero a oltranza». Eppure, il terrorismo non si spegne. A ogni palestinese assassinato da Israele, risponde un attentato. Quattro anni dopo il massacro alle Olimpiadi, un commando palestinese compie un’azione altrettanto clamorosa, dirottando a Entebbe, nell’Uganda del feroce dittatore Idi Amin, un aereo della Air France partito da Tel Aviv con 248 passeggeri a bordo, in gran parte ebrei. Il raid di Entebbe per liberarli verrà ricordato come un’epica “missione impossibile”. I commandos israeliani riportano a casa quasi tutti gli ostaggi, senza subire perdite, tranne una: il comandante della missione. Si chiama Yonatan Netanyahu. Anche suo fratello minore Benjamin entrerà nelle forze speciali. Diventerà il primo ministro più longevo nella storia di Israele.
Se azioni deterrenti e raid eroici non possono estirpare il terrorismo, come fermarlo? Una delle mie prime interviste come corrispondente da Israele è con Shimon Peres, all’epoca ex premier, ex ministro degli Esteri, ex braccio destro di Ben Gurion: «L’Antico Testamento descrive la decisione di Eva di accettare la mela dal serpente come il peccato originale, il peccato da cui tutto discende e di cui l’uomo deve eternamente mondarsi per guadagnare il perdono divino», mi dice il grande statista. «Ebbene, anche noi ebrei abbiamo un peccato originale da scontare: quando Herzl, il teorico del sionismo, pronunciò il suo famoso slogan, secondo cui “un popolo senza una terra” andava verso “una terra senza un popolo”, ometteva il fatto che su quella terra c’era un altro popolo, il popolo palestinese. Molto altro è accaduto da allora, distribuendo torti e ragioni da entrambe le parti del conflitto. Ma per riparare il nostro peccato originale, c’è un solo modo: dare una terra anche ai palestinesi».
Il tentativo di liberarsi del peccato originale inizia nel 1979, con una stretta di mano tra due leader: l’egiziano Anwar Sadat e l’israeliano Menachem Begin sanciscono l’accordo di Camp David, dal nome della residenza di campagna del presidente degli Stati Uniti, Jimmy Carter, che ne è il mediatore. Si tratta di una “pace fredda”, ovvero non calorosa, ma è lo stesso una svolta: il più importante Stato arabo riconosce il diritto di esistere di Israele. Begin e Sadat vincono il Nobel per la pace. Ma il 6 ottobre 1981 il presidente egiziano viene assassinato da militanti islamisti contrari alla sua storica decisione. Passa un decennio prima che il cammino della pace riprenda, con il “processo di Oslo”, sostenuto dal presidente Bill Clinton nel 1993, un ciclo di trattative segrete fra israeliani e palestinesi nella capitale norvegese che porta a un’altra stretta di mano: quella tra Rabin e Arafat alla Casa Bianca. La loro intesa prevede la creazione di territori sotto diretto controllo palestinese in Cisgiordania e a Gaza, la cooperazione fra i servizi di sicurezza israeliani e palestinesi per combattere il terrorismo e il progetto di dichiarare entro cinque anni uno Stato palestinese che viva in pace e sicurezza reciproca accanto a Israele. Come Begin e Sadat, anche Rabin e Arafat ottengono il Nobel per la pace, insieme all’altro autore dell’accordo, il ministro degli Esteri israeliano Peres. Sul prato della Casa Bianca, l’ex generale Rabin cita la Bibbia: «La terra del latte e del miele non deve diventare la terra delle lacrime e del sangue. La pace si fa tra nemici, non tra amici». Come Sadat, il leader israeliano paga con la vita il suo gesto: due anni più tardi viene assassinato a Tel Aviv da un estremista ebreo contrario alla pace. Nel discorso alla Casa Bianca in cui ne annuncia la morte, Bill Clinton appare commosso come se avesse perso un fratello e un modello: «Il mondo ha perso uno dei suoi più grandi uomini», dice il presidente americano. «Un guerriero per la libertà della propria nazione. Un paladino per la pace della propria nazione. Per mezzo secolo, Yitzhak Rabin ha rischiato la vita per difendere il proprio Paese. Oggi, ha dato la vita per difendere la pace. E la pace sarà l’eredità che ci lascia».
Per un po’ sembra vero. Le elezioni in cui forse il laburista Rabin sarebbe stato rieletto sono vinte dal suo avversario Netanyahu, leader del Likud, il partito della destra israeliana, che sconfigge a sorpresa il premier a interim Peres, ma anche Netanyahu all’inizio tratta con Arafat, firmando due accordi con il presidente dell’Autorità Palestinese. E dopo qualche anno la storia si ripete, non solo nel segno della tragedia ma pure nella speranza. In Israele si dice che soltanto un ex generale può realizzare veramente la pace e il destino disegna le stesse circostanze che esistevano prima dell’assassinio di Rabin: Netanyahu perde le successive elezioni, al suo posto diventa primo ministro Barak, ex generale, ex ministro della Difesa, nuovo leader del Labour, il capo del commando che travestito da donna aveva ucciso tre palestinesi a Beirut, l’ufficiale più decorato al valore nella storia di Israele. Al summit di Camp David, nell’estate del 2000, Israele offre ad Arafat uno Stato indipendente in Cisgiordania e a Gaza, con Gerusalemme Est come capitale (la Città Vecchia con i luoghi santi sarebbe stata sotto gestione congiunta). L’unica questione su cui Barak non cede è il “diritto al ritorno” dei palestinesi che vivono da generazioni nei campi profughi del Medio Oriente: perché dovrebbero tornare dopo 52 anni nelle città israeliane, osserva, visto che ora avranno un proprio Stato in cui stabilirsi? «Accetti questa offerta, Abu Ammar», dice ad Arafat, chiamandolo con il suo nome di guerra, l’ambasciatore saudita a Washington. «La accetti ora o rimpiangerà per sempre di non averlo fatto». Parole profetiche. Arafat si impunta sul diritto al ritorno, la trattativa fallisce, Barak non viene rieletto primo ministro, al potere torna il Likud, scoppia una nuova Intifada, stavolta non con pietre tirate dalle fionde ma con kamikaze palestinesi che si fanno saltare in aria in mezzo ai civili israeliani, a Gaza prendono il potere i fondamentalisti di Hamas in contrapposizione con l’Olp in Cisgiordania e la pace si allontana. Due anni prima di morire, Arafat mi appare spento, in un’intervista nel suo quartier generale a Ramallah: «Se non sarò io a vedere uno Stato palestinese, lo vedrà mia figlia». Ma finora non lo ha visto nemmeno sua figlia: nonostante qualche altro tentativo di dialogo, l’occasione perduta del 2000 genera due decenni di lacrime e sangue. Altri conflitti danno l’impressione che quello israeliano-palestinese non sia più la priorità in Medio Oriente: la guerra in Iraq nel 2003; il sedicente Stato terrorista dell’Isis; l’allarmante programma nucleare iraniano. Gli accordi di Abramo, firmati tra Israele e quattro Paesi arabi durante la presidenza Trump, dimostrano come quelli siglati in precedenza da Egitto e Giordania che il mondo arabo è disposto a fare la pace con lo Stato ebraico anche senza avere risolto la questione palestinese. Promessa due volte, da Iddio agli ebrei, quindi dagli ebrei almeno in parte agli arabi, la terra fra il Giordano e il Mediterraneo rimane al centro di un secolare conflitto. Fino alla sua morte, nel 2016, Peres ripete un ammonimento: «Se non daremo uno Stato ai palestinesi, ci saranno solo due possibilità, o non saremo più uno Stato ebraico, perché gli arabi saranno la maggioranza della popolazione, o non saremo più uno Stato democratico, perché quegli arabi non avranno diritto di voto». Esiste una terza opzione, quella di Netanyahu, che sembra optare per mantenere a tempo indeterminato lo status quo. Ma in Israele, come in Europa e negli Usa, molti non sono d’accordo con lui. «Fino a quando continua questa situazione, il nostro Paese va condannato per il sistematico abuso dei diritti dei palestinesi», scrive sul
Jerusalem Post
Gershon Baskin, un giornalista israeliano che ha collaborato alla nascita del processo di pace. «Nella situazione attuale, il nostro Stato pratica una nuova forma di apartheid: due popoli che vivono nella stessa terra con diritti legali diversi. Chi dice queste cose viene bollato come antisemita, ma io mi limito a criticare il mio governo». Anche questo israeliano così critico verso Israele però aggiunge: «Mettere fine all’occupazione e dare ai palestinesi i loro legittimi diritti nazionali sarebbe più facile, se i palestinesi mettessero in ordine la loro casa politica, avessero un governo invece che due, facessero libere elezioni, avessero una leadership nuova, giovane, dinamica e composta anche di donne». Insomma, ci vorrebbe un miracolo, anzi una serie di miracoli: ma quando cammini per la Città Vecchia di Gerusalemme ti pare di seguire le orme di Abramo, di Gesù, di Maometto. La Terra Santa è la terra dei miracoli, della fede che non si spegne mai, nemmeno nei momenti più bui.
Un fiore nel deserto
E a riguardare i progressi compiuti dal piccolo Stato di Israele, 75 anni dopo la sua fondazione con la guerra d’indipendenza, sembra davvero di avere assistito a un miracolo. Dall’odio millenario dell’antisemitismo e dalle ceneri dell’Olocausto è sorto un Paese che oggi è all’avanguardia nella medicina, nella ricerca scientifica, nell’innovazione, il secondo al mondo (dietro gli Stati Uniti) per numero di aziende quotate al Nasdaq, la borsa delle alte tecnologie in America, in possesso (sebbene non lo dichiari ufficialmente) di 200 missili atomici basati su sottomarini, dunque uno della decina di Stati provvisti del deterrente nucleare. Si usa dire che, con i suoi kibbutz, Israele ha fatto fiorire il deserto. Uno dei suoi fiori più belli è Tel Aviv, la città più grande, moderna e globalizzata dello Stato ebraico, fondata dai pionieri sionisti soltanto nel 1909. “Gerusalemme prega e Tel Aviv si diverte” recita un assioma locale, esprimendo il dualismo tra la capitale politico-religiosa, cuore dell’ebraismo, e la Miami Beach mediterranea, espressione della Israele più laica e godereccia: «Una città magica», la descrive l’architetto francese di origine ebraica Charles Zana, «dove come a New York non si dorme mai». Ma il fiore più importante sbocciato dal 1948 a oggi in Israele è indubbiamente la democrazia: l’unica piena democrazia del Medio Oriente. «Nonostante l’ininterrotta guerra combattuta ai suoi confini e gli episodi di terrorismo all’interno del proprio territorio da parte di chi non ha mai voluto riconoscere la legittimità dello Stato ebraico», dice il professor Sergio Della Pergola, storico dell’ebraismo di fama mondiale, uno dei diecimila israeliani di origine italiana (suo padre fu l’inventore del Totocalcio), «Israele ha dimostrato eccezionali capacità di tenacia e resilienza, di innovazione accademica e tecnologica, di perseveranza nel risolvere problemi che ancora piagano Paesi con esperienze assai più lunghe di sovranità, nel mantenere la moralità della cosa pubblica grazie a un sistema giudiziario impeccabile e nel creare una cultura originale e attraente. Per tutto ciò ha rappresentato una fonte di ispirazione e di orgoglio non solamente per il popolo ebraico, ma per l’intera umanità. Con le sue utopie e le sue tensioni, oggi Israele è forse la cartina al tornasole della democrazia occidentale».
Certo, riconosce Della Pergola, «negli ultimi anni le tribolazioni della democrazia non hanno risparmiato Israele, il dibattito sulla doverosa separazione fra i poteri, sulla tutela delle minoranze, sul rapporto fra religione e società civile, si è intensificato al punto da raggiungere lo stallo fra le maggiori alternative politiche»: allude alla crisi scatenata dalla riforma della giustizia proposta da Netanyahu, con il sostegno dei partiti di estrema destra della sua coalizione. L’iniziativa che negli ultimi mesi ha paralizzato il Paese con manifestazioni di massa, scioperi e proteste senza precedenti. Isaac Herzog, il presidente di Israele, ha evocato il rischio di una guerra civile. Così, proprio nel 75esimo anniversario della nascita del loro Stato, numerosi commentatori esprimono timori per la democrazia israeliana. «Israele ha realizzato tante speranze», commenta Angela Polacco Lazar, guida per tanti visitatori italiani in Terra Santa e punto di riferimento della comunità ebraica di origine italiana. «Non tutte le speranze: quella più desiderata, che si invoca attraverso la preghiera decine di volte al giorno, sembra ancora lontana. Eppure, sono sicura che tra le vie della pace ce ne sia una che rimane nascosta, che non riusciamo ancora a vedere. Ai nostri figli lasciamo un Paese che ha raggiunto traguardi inimmaginabili in 75 anni, insieme a conflitti interni ed esterni irrisolti. Ma guardando lo sguardo fiero e sincero della nostra gioventù, addestrata a combattere per difenderci e al tempo stesso libera di spirito, appassionata della vita, io resto ottimista». Traguardi e conflitti, speranze e paure, utopie e tensioni. I tre quarti di secolo dello Stato ebraico, in fondo, si possono riassumere con il titolo del romanzo più bello di Amos Oz, che si riferisce alle vicende familiari del grande scrittore israeliano ma è una metafora dei trionfi e dei drammi di Israele: Una storia di amore e di tenebra. La tenebra dell’Olocausto e della guerra più lunga. L’amore di un piccolo, formidabile popolo per una fede, per una terra, per il diritto di esistere liberi.