la Repubblica, 30 aprile 2023
Intervista a Michael Walzer
La mia attrice preferita, Lauren Bacall, lo disse meglio di tutti: “È liberale chi ha la mente aperta”.
Durante la pandemia ho riflettuto su come il liberalismo classico sia stato deformato: in alcuni casi diventando una sorta di libertarismo o forma modesta di socialdemocrazia sfociante nel neoliberalismo. Ma il termine “liberale” contiene un’accezione morale. E i liberali sono ancora un gruppo ben definito: aperti al confronto, tolleranti, estranei a dogmi e fanatismi. Ho dunque ipotizzato un uso diverso del termine: non più sostantivo ma aggettivo. Nuovo modo per
descrivere, recuperare e difendere una certa idea della politica».
In un bar del West Village newyorchese il filosofo Michael Walzer, 87 anni, figura di riferimento della sinistra appunto liberal-americana, lascia raffreddare il caffè pur di inanellarti al meglio i concetti di quel che definisce il suo «libro-testamento»: Che cosa significa essere liberale,
pubblicato in Italia da Raffaello Cortina Editore.
Il titolo originale del libro è “The Struggle for a Decent Politics”, “la lotta per una politica decente”. È un giudizio sull’epoca attuale?
«Credo nel concetto espresso dal mio amico Avishai Margalit nel
suoLa società decente : una società giusta è aspirazione molto alta, impegniamoci almeno a vivere in una “società decente”. E sì, la politica è oggi indecente. Impregnata d’odio verso gli avversari, caratterizzata dal desiderio di prendere tutto e poi cambiare le regole affinché nessun altro vinca più».
Come ci siamo arrivati?
«Uso come parametro le mie due città: l’operaia Johnstown, Pennsylvania, dove sono cresciuto era un polo siderurgico democratico che col declino industriale è stata conquistata da Trump. E l’intellettuale Princeton dove insegno, città universitaria del New Jersey, vinta ampiamente da Hillary Clinton. Le considero simbolo diun Paese diviso, dove la classe operaia si è sentita abbandonata e ha finito per assimilare i liberali all’élite».
Come il politologo Mark Lilla, anche lei pensa che la sinistra, troppo concentrata sui diritti delle minoranze, ha dimenticato i lavoratori?
«Per le minoranze abbiamo fatto ciò che era giusto. Ma le battaglie non andavano separate. Per quel che riguarda il lavoro ci siamo accontentati di vittorie parziali e abbiamo fallito. La colpa è anche degli strateghi di Clinton e Obama convinti di poter vincere le elezioni puntando su classe media e minoranze, dimenticarono il sindacato e persero opportunità».
“Liberale come aggettivo” è
il sottotitolo dell’edizione inglese.
«Era il titolo che avevo in mente.
Ma alla mia casa editrice dissero che sarebbe stato scambiato per un testo di grammatica. Così abbiamo ribaltato i concetti, comunque vicini».
Cosa comporta il passaggio da sostantivo ad aggettivo?
«Il liberale convive con le differenze, difende i diritti pure di chi la pensa diversamente. Ha una morale che presuppone altri impegni. Affiancare “liberale” a concetti politici significa dunque qualificarne i significati. Democrazia, socialismo, nazionalismo, femminismo e altro vengono così liberati da rigidità e dogmatismi. Ma attenzione: non significa esseremoderati».
Teme di essere frainteso?
«IlNew York Times ha scritto che sto sempre dal lato moderato e imparziale dei dibattiti. Non è così. Un liberal socialista, per dire, non è un moderato. È un antiautoritario ma sempre fiero oppositore delle ineguaglianze.
L’approccio etico non rende più moderati».
Ha dedicato un capitolo al liberal-femminismo.
«Mi hanno spinto a scriverlo mia sorella Judith, storica e femminista, e tutte le donne di famiglia: moglie, figlie e mia nipote Katya che ha fornito i commenti più profondi. Sono partito dal lavoro di Susan Moller Okin che pose l’accento sulla giustizia nella famiglia e criticò il multiculturalismo a ogni costo.
Un tema che con le rivolte in Iran è di nuovo attuale. Le femministe americane sono state scioccamente silenziose sulla questione: avevano sostenuto politiche della differenza, la necessità di accettare il costume islamico. La rivolta iraniana le ha scioccate».
Nella prefazione cita l’italiano Carlo Rosselli e l’israeliana Yuli Tamir. Figure diverse, cosa le accomuna?
«L’attitudine. Rosselli, autore di
Socialismo liberale, era un sincero democratico, capace di anticipare di un secolo temi oggi pregnanti. Tamir nel suo Le ragioni del nazionalismo ha sostenuto che si può amare il proprio paese pur contrastando degenerazioni xenofobe e autoritarie».
Lei sottolinea che ogni passaggio di potere deveessere pacifico e non vendicativo. Cosa pensa dell’incriminazione a Donald Trump?
«Nel libro scrivo che Trump non doveva essere perseguito nemmeno dopo i fatti del 6 gennaio. Ma eccoci nel 2023 con tutto ciò che sappiamo e lui di nuovo in corsa per la Casa Bianca. Ha fatto cose davvero criminali. Non tanto ciò di cui lo accusano a New York, crimini troppo modesti per rinchiudere un ex presidente in prigione. Ma se sarà dimostrato che tentò di alterare il risultato elettorale in Georgia, non potrà restare impunito. Anche se perseguire un oppositore politico resta un precedente pericoloso».
Lei definisce questo saggio “testamento”.
«Potrebbe essere il mio ultimo libro e ho deciso di raccontare le mie esperienze politiche. Non la mia vita privata ma il mio attivismo, la storia della rivistaDissent, i pensatori che mi hanno ispirato, i compagni con cui mi sono confrontato».
C’è un capitolo che le è particolarmente caro?
«Cosa significa essere un ebreo liberale. Sono un ebreo secolare che va tutti i sabati in sinagoga: per incontrare persone che vedono di me cose che ad altri sfuggono. Ci sono comunità all’interno delle nazioni e quella ebraica è la mia. Naturalmente questo significa che devo anche litigare molto. Ma ogni capitolo mi somiglia. Spero che molti lettori, riconoscendosi, aggiungeranno l’aggettivo liberale al loro credo politico».