la Repubblica, 1 maggio 2023
Patrick Zaky racconta la guerra in Sudan con Soryia Hussin Al-Hussin
In queste settimane ho analizzato a fondo la situazione attuale in Sudan. La condizione delle minoranze è sempre stata molto interessante, e pertanto ho cercato una donna che avesse intrapreso il pericoloso viaggio da Khartoum al Cairo. Questo mi ha condotto a piazza dell’Opera, una località nota per essere un luogo fisso di incontro per la comunità sudanese nel centro del Cairo. L’area è piena di bar e ristoranti sudanesi frequentati tutti i giorni da sudanesi, e sono andato lì.
Soryia Hussin Al-Hussin, una farmacista 32enne di Omdurman – la città più popolosa del Sudan – mi ha raccontato la sua storia, condividendo i dettagli del suo pericoloso trasferimento al Cairo. Secondo lei, tutto è iniziato in un batter d’occhio. «Abbiamo sentito il rumore di alcune esplosioni e, di colpo, senza preavviso, è scoppiata la guerra». Con le deflagrazioni che risuonavano in lontananza, Soryia e la sua famiglia hanno subito acceso la televisione per sapere che cosa stesse succedendo. È stato allora che hanno scoperto che le Forze armate sudanesi (Saf) erano nel pieno di un’aspra battaglia con le Rapid Support Forces (Rsf), poco più di due settimane fa.
Soryia ha poi spiegato che, proprio quando pensava che fosse impossibile che la situazione si aggravasse, in cielo sono apparsi aerei da guerra che hanno iniziato a bombardare di continuo. A quel punto, lei e la sua famiglia hanno capito che la situazione era precipitata e che quello a cui stavano assistendo era l’inizio di una guerra. L’esercito sudanese aveva annunciato attraverso tutti i canali che le Rsf sono considerate milizie ribelli e che nel giro di 24 ore l’esercito si sarebbe liberato di loro. I combattimenti, invece, sono ancora in corso ed è improbabile che si fermino a breve.
«Non riesco a lasciarmi alle spalle l’amarezza di aver dovuto abbandonare la mia casa», ha detto Soryia. Da quello che ha raccontato, ho capito che con i suoi familiari è stata costretta a rimanere sotto i bombardamenti, tra ordigni e proiettili che cadevano ovunque nelle vicinanze. Le pareti di casa sua tremavano di continuo. Nessuno ha potuto dormire, mangiare o bere. L’acqua, infatti, è venuta a mancare fin dal primo giorno di scontri e non era ancora tornata quando ha lasciato il Sudan diretta al Cairo con i suoi cari.
Come è iniziata la guerra
Nell’aprile di quest’anno, in Sudan 42 parti interessate – tra cui cittadini, partiti politici e gruppi della società civile – avrebbero dovuto firmare un accordo politico, un promettente passo avanti verso la democrazia. Pochi giorni prima della firma, però, le tensioni tra Saf e Rsf sono esplose e hanno portato all’esplosione della violenza.
Probabilmente, le discussioni per raggiungere un’intesa hanno contribuito al conflitto, ma le radici delproblema vanno cercate nel prolungato attrito tra i comandanti di Saf e Rsf. Nel 2019 i due contingenti militari si erano uniti per rovesciare l’ex presidente Omar al-Bashir e da allora hanno sempre collaborato. Fino alla rottura. La partnership era importante per entrambi, perché permetteva loro di guadagnare terreno, tutelare i loro interessi economici e mettersi al riparo da procedimenti giudiziari per le atrocità commesse in passato.
Negli ultimi mesi, il contrasto tra i leader di Saf e Rsf è degenerato e li ha portati ad aggredirsi polemicamente l’un l’altro attraverso i media. Le ingerenze esterne non hanno fatto altro che aggravare le loro divergenze, con gli islamisti associati al regime di Bashir che hanno gettato altra benzina sul fuoco. Da lì si è arrivati a una guerra in piena regola. Questa tragica svolta ha mandato in frantumi la speranza di un governo di transizione e di poter far imboccare al Sudan la strada della democrazia.
Il 15 aprile il Paese è precipitato nel caos quando fazioni rivali della giunta militare al governo si sono scontrate, provocando molti episodi di violenza e un conflitto armatoche ha interessato in modo significativo la regione occidentale del Sudan, Khartoum, e la regione del Darfur. La capitale del Paese è stata presa di mira.
Dalla mattina del 15 aprile, gli scontri hanno sconvolto le infrastrutture della città, privando gli abitanti dell’accesso ai beni di prima necessità. L’elettricità è intermittente, la città è precipitata nel buio, le scorte di cibo sono ridotte e i negozi sono chiusi.
Come migliaia di altri sudanesi, Soryia Hussin Al-Hussin è uscita di casa lasciandosi dietro tutto. Con amarezza dice: «Tutte le mie esperienze, la mia infanzia, ogni singolo luogo conosciuto adesso sono soltanto ricordi». Ha lasciato casa senza nemmeno cambiarsi i vestiti: «Indosso solo una tunica nera, nera come l’oscurità dell’ingiustizia che predomina nella mia terra». Con i suoi familiari ha preso la decisione di andarsene dopo che alcune case vicine alla sua sono state colpite dai proiettili. Malgrado la difficoltà di dover affrontare digiuni di 14 ore, interrotti soltanto con datteri e acqua, si sono considerati fortunati ad avere almeno quelli.
Costantemente a rischio per il pericolo che arrivasse qualche proiettile vagante, Soryia conferma che «restare vivi è stata una battaglia quotidiana e così, dopo otto giorni di reclusione, abbiamo deciso di andarcene». Si riferisce al fatto di essere stati costretti a rimanere in casa per otto giorni di seguito senza elettricità e con poco cibo e acqua a disposizione, mentre fuori imperversavano i combattimenti. Quando spiega di aver dovuto lasciare lì i suoi fratelli e mettersi in viaggio con la sorella, i nipotini, le nipotine e la madre settantenne che soffre di ipertensione e diabete, le si spezza la voce.
Gli abitanti di Khartoum fanno fatica a tirare avanti: l’acqua è scarsa e i disagi sono sempre più grandi. Con una situazione così disastrosa, migliaia di sudanesi stanno scappando verso i confini del Paese, alla ricerca di riparo e di stabilità.
La crisi umanitaria
Soryia prova una sensazione di oppressione e di ingiustizia per quello che le è accaduto. Si è sentita morire quando è fuggita da casa. Si è rivolta molte domande: «La guerra finirà e ritornerò, oppure è l’ultima volta che vedo casa mia? Riabbraccerò i miei fratelli? Riuscirò a mettermi in salvo o morirò in cammino?». Il viso di sua madre la convince che la donna avesse un bisogno assoluto di essere messa in salvo, non potendosi rivolgere all’ospedale, distrutto come molti altri. Anche quelli ancora in piedi non sono raggiungibili: non c’è benzina e in giro non si vedono automobili. Tutti i distributori di carburante sono chiusi. Tutti i negozi di alimentari vicini a casa sua sono sprangati. Per le strade non c’è nessuno, tranne i militari dell’Rsf o dell’esercito sudanese. Soryia ammette di essersi chiesta «se dovessimo restare e accettare una morte inevitabile, oppure andarcene con un briciolo di speranza di restare vivi».
Per capire meglio la situazione ho contattato il mio amico Hamid Khalafallah, ricercatore presso il Tahrir Institute for Middle East Policies, che mi ha confermato come a Khartoum la sicurezza versi in condizioni tragiche. Si combatte nelle aree residenziali e i civili sono usati come scudi umani, sia dagli uomini dell’Rsf che dell’esercito sudanese.
Anche la situazione umanitaria è critica: Khalafallah conferma la testimonianza di Soryia, dicendo che il 65 per cento degli ospedali è fuori servizio, distrutto o perché si trova in aree a rischio. La scarsità di cibo e di carburante ha trasformato Khartoum in una città spettrale, senza mezzi di trasporto circolanti. Il denaro in contanti è sempre meno. Se questa situazione dovesse perdurare, il Sudan potrebbe avviarsi verso una catastrofe umanitaria.
Il confine di Argeen
«Siamo partiti all’alba, alle cinque di sabato 25 aprile», racconta ancora Soryia. Sotto i proiettili e con i bombardieri che sorvolavano la città, ha raggiunto la stazione Kandahar di Khartoum, da dove partono gli autobus per Argeen, il più importante valico di frontiera con l’Egitto. Ma con migliaia di persone in fuga e soltanto due autobus in servizio, pur avendo provato più volte, Soryia e la sua famiglia hanno dovuto aspettare giorni prima di trovare posto.
La stazione di valico di Argeen e lo scalo di Qastal, che collega Sudan ed Egitto, al momento sono congestionati dall’afflusso di migliaia di automobili. Google Maps mostra numerosi autobus in fila in attesa di passare il confine per Assuan. La località del Basso Egitto, popolare meta turistica, è anche la prima cittàegiziana che incontrano i profughi in arrivo dal Sudan.
Secondo Nour Khalil, direttore esecutivo dell’organizzazione egiziana Refugees’ Platform, la situazione sul versante sudanese della frontiera è drammatica: migliaia di persone aspettano da giorni, senza poter soddisfare i bisogni di base. Sono senz’acqua, senza cibo, senza bagni. Se non si farà qualcosa, la situazione umanitaria potrebbe precipitare. Al momento, sembra che i ritardi negli interventi nella zona internazionale tra Egitto e Sudan siano imputabili maggiormente al versante sudanese: a dirlo sono alcuni testimoni sul terreno. Ma è indispensabile agire subito per impedire una tragedia immane.
Nour Khalil aggiunge che, sull’altro versante, l’Egitto ha preso alcuni provvedimenti per contenere il diffondersi delle malattie, mettendo a disposizione ambulanze e predisponendo aree di quarantena. Per ora, alcune organizzazioni internazionali sono state autorizzate a facilitare l’iter di ingresso in Egitto e a prestare aiuto. Purtroppo, entrare nel Paese continua a essere un’impresa, tenuto conto del requisito obbligatorio di un visto valido per sei mesi, salvo eccezioni per gli anziani e le donne. Malgrado tutti gli sforzi volti a migliorare la situazione, riuscire a procurarsi un visto è ancora molto complicato. Tutto l’iter dipende direttamente dagli uffici di Wadi Haifa, sul confine, a cui si sono rivolti migliaia di sudanesi.
L’attesa del visto
Soryia torna a parlare delle difficoltà di trovare un posto sull’autobus per il confine, e che il costo dei biglietti è passato da 20mila a 120mila sterline sudanesi, poi addirittura a 480mila, un prezzo davvero esorbitante, più di venti volte quello normale. Mentre parla fa alcune pause poi, con voce soffocata, dice che il tragitto in autobus è durato cinque ore, ma che a lei è sembrato di cinque anni.
Mentre viaggiava da Khartoum al valico di confine insieme ai suoi familiari, Soryia ha dovuto cercare riparo ogni volta che si sentiva l’assordante rumore dei caccia militari che bombardavano le aree nei dintorni: «Il terrore era tangibile, ci sentivamo di continuo a un soffio dalla morte». Le loro peggiori paure si sono materializzate quando un gruppo di delinquenti, riusciti a evadere da un carcere subito dopo lo scoppio della guerra, li ha aggrediti impugnando coltelli. Con il cuore pesante, racconta che «l’esperienza è stata tremenda» e li ha lasciati «con una sensazione di grande vulnerabilità». Con i suoi familiari è stata salvata da un compagno di viaggio che aveva una pistola ed è riuscito a sparare nella direzione dei malviventi, permettendo a tutti di sottrarsiall’aggressione. Nonostante i pericoli e l’insicurezza del viaggio, Soryia Hussin Al-Hussin e i suoi familiari sono rimasti fiduciosi, determinati a raggiungere la loro meta. La mia testimone conclude dicendo che la loro «sopravvivenza è la dimostrazione della loro forza e resilienza».
Insieme ai suoi familiari, Soryia Hussin Al-Hussin è rimasta al confine per quattro giorni in attesa dell’autorizzazione a entrare in Egitto. Le chiedo quali sono i suoi sogni per il Sudan: mi risponde che prima di ogni altra cosa le vengono in mente sicurezza e protezione per il suo Paese. Desidera ardentemente che prevalga la pace e che persone di nazionalità diversa riescano a convivere. Prova un dolore profondo e una paura indicibile per il fratello, di recente evacuato dalla sua casa. Alla fine, Soryia conclude: «Abitiamo in Egitto adesso, siamo ospiti di una gentile famiglia sudanese, ma purtroppo non abbiamo né soldi, né lavoro, né una fonte di reddito. Spero di ricongiungermi presto con tutta la mia famiglia e di tornare in un Sudan sicuro e in pace».