La Stampa, 1 maggio 2023
L’imparzialità di Kwame Anthony Appiah
Di questi tempi, poche persone sono imparziali nei confronti dell’imparzialità. Di sicuro, il pensiero complesso si è ritorto contro di essa. È sbagliata l’idea stessa, ci viene detto: nel migliore dei casi è un mero espediente per imbellettare la parzialità. In seguito all’imprevisto verificatosi alla Stanford Law – dove, per calmare alcuni manifestanti che stavano impedendo a un giudice conservatore di parlare, un responsabile ha parlato in modo da sembrare che si schierasse dalla loro parte – la rettrice di Giurisprudenza ha ricordato il Rapporto Kalven del 1967 dell’Università di Chicago nel quale si sottolinea l’importanza dell’imparzialità delle istituzioni. Non appena ha evocato quella nobile difesa, tutti hanno alzato gli occhi al cielo. Un accademico ha dichiarato che era «incredibilmente arduo» attirare l’attenzione sulle parole ambigue del giudice e «al tempo stesso farlo da una posizione di imparzialità politica». A prescindere dal ruolo che abbiamo nella vita pubblica, dopo tutto, a stento siamo liberi da inclinazioni politiche e ideologiche. Se i nostri valori personali sono davvero importanti per noi, non dovrebbero influire su ogni cosa di cui ci occupiamo? Perché non dovremmo mettere le carte in tavola ed essere sinceri su quello che abbiamo in cuor nostro?
Nella loro attività professionale, persone di ogni tipo – giudici, giornalisti, medici, amministratori pubblici, scegliete voi – mantengono un certo atteggiamento di imparzialità.
In How Judges Think, Richard A. Posner, eminente giurista e per molti anni giudice di corte d’appello, ha criticato il miraggio del «legalismo», un modello in virtù del quale i giudici non fanno altro che applicare le leggi alle circostanze specifiche di un caso. «I giudici hanno meno probabilità di ubriacarsi di potere se si rendono conto di esercitare la discrezionalità rispetto a quando si sentono solo l’ingranaggio di una catena di trasmissione per decisioni prese altrove e quindi non si sentono responsabili delle eventuali spiacevoli conseguenze di quelle decisioni» ha scritto. Secondo lui, la Corte Suprema è il tribunale più politico in assoluto, e molti si dicono d’accordo. Un gruppo di attivisti politici che mirano ad ampliare l’accesso all’aborto ha messo in guardia dall’«insignificante linea del guardalinee» che i candidati conservatori adottano di fronte alla Commissione Giustizia del Senato: «Quando arrivano in tribunale, portano avanti la loro ideologia conservatrice e ribaltano sentenze».
Ma si può raggiungere l’imparzialità? «Nessun processo giornalistico è obiettivo» ha fatto notare Wesley Lowery, ex reporter del Washington Post in un articolo molto discusso pubblicato dal New York Times nel 2020. «E nessun giornalista è obiettivo, perché nessun essere umano lo è». Tenuto conto delle inadeguatezze del giornalismo imparziale obiettivo, Lowery ha proposto un altro ideale: «la lucidità morale». (...)
«È mai pensabile che l’amministrazione di un’università consacrata alla ricerca della verità sia imparziale su questioni facilmente analizzabili facendo ricorso a metodi obiettivi?» ha chiesto Holden Thorp, scienziato ed ex direttore dell’università, in un articolo per The Chronicle of Higher Education. Dal suo punto di vista, l’imparzialità è un subdolo stratagemma: «Il corpo accademico, l’organico dell’università e gli studenti sanno che i presidenti sono esseri umani con opinioni personali su queste questioni. Molti di loro conoscevano il presidente già prima di assumere il loro incarico. Chi prendono in giro, quindi, dicendo di essere imparziali? Nessuno». (...)
Al di sopra di questi ragionamenti aleggia una questione di morale politica ben più ampia: lo Stato stesso può e dovrebbe essere imparziale? Per tradizione, il liberalismo ha fatto leva sul concetto di imparzialità. Il più strenuo oppositore dell’imparzialità liberale del secolo scorso forse è stato il giurista e politologo Carl Schmitt. Nel suo saggio The Age of Neutralizations and Depoliticizations (1929), mise sotto accusa il liberalismo in quanto faceva credere che tutte le persone e tutti i punti di vista avessero diritto a essere considerati alla pari e che i contrasti tra le visioni dovessero essere risolti con dibattiti pacifici regolamentati e con le delibere di legislature e tribunali. Biasimò il modo di quelli che noi chiameremmo media mainstream di proclamare questa visione, che di fatto depoliticizza la politica. Sostenne che la politica non avrebbe mai potuto essere sostituita sul serio dal proceduralismo liberale e che la vera politica, in fin dei conti, volesse dire annientare i nemici.
Per alcuni aspetti, il pensiero di Schmitt sembra essere in sintonia con il pensiero complesso dei nostri tempi. Schmitt disprezzò il culto di Big Tech, che egli definiva «torpida religione della tecnicità». Secondo lui, le tecnologie di comunicazione di massa erano strumenti per «dominare le masse su vasta scala». Laddove la gente immaginava che i tribunali e le autorità potessero applicare in modo impersonale le norme ai vari casi, Schmitt insisteva che quello da lui definito «decisionismo» – i pronunciamenti di un’arbitraria volontà personale – avrebbe svolto, e dovesse svolgere, un ruolo fondamentale accanto a quelle norme. Lo stimolo più potente nell’ordinamento della società – e l’unico a cui si oppone vigorosamente resistenza – era la «ricerca di un dominio imparziale». Schmitt pensava che quello di cui si aveva bisogno, invece, fosse qualcosa di simile alla lucidità morale: l’abbraccio incondizionato di un insieme esaustivo di valori che distinguevano bene e male. Come è risaputo, Schmitt adottò una soluzione per le pratiche permissive della Repubblica di Weimar. Entrò nel Partito nazista quando Hitler salì al potere – nessuna affettazione di imparzialità, qui! – e per un periodo ne fu uno dei giuristi di spicco. In un libro del 1938, accusò i pensatori ebrei tra cui Baruch Spinoza e Moses Mendelssohn di promuovere forme di governo che avrebbero dato accoglienza al pluralismo, all’inclusione delle minoranze e alla «libertà di pensiero dell’individuo». Deplorò il fatto che il loro ideale di «Stato imparziale» aveva riscosso qualche favore, gravando il governo di responsabilità gestionali e procedurali per trattare le persone in modo imparziale. (...)
Negli ultimi decenni molti teorici hanno cercato di esprimere chiaramente l’idea di fondo di imparzialità liberale. In The Ethics of Identity ho sostenuto che l’ideale primario è che lo Stato tratti le persone di identità sociali diverse con lo stesso rispetto: una legge può svantaggiare persone di una certa identità, ma non dovrebbe mai svantaggiarle perché le si considera persone di una certa identità. Il pluralismo esige questa forma di imparzialità, quella che ho definito «l’imparzialità intesa come stesso rispetto». Lo Stato non appartiene a un unico gruppo di cittadini.
Anche se stiamo promuovendo il pluralismo detestato da Schmitt, però, in che modo dovremmo fare i conti con il divario tra i nostri pregiudizi umani e l’imparzialità che ostentiamo durante l’espletamento dei nostri incarichi pubblici? Erving Goffman, il grande sociologo, delineò una distinzione tra il nostro comportamento sul proscenio e il nostro comportamento nel backstage, dietro le quinte. (Era affascinato dal contrasto tra il comportamento dei camerieri davanti agli avventori e quello in cucina). È dunque tutta questione di recitazione, con secondi fini ben nascosti nella toga dei giudici, nel taccuino dei giornalisti, nella blanda reticenza dei rettori?
Il mio collega Michael Strevens è un filosofo della scienza e nel suo libro La macchina della conoscenza ha analizzato un problema difficile: gli stessi scienziati non sono davvero imparziali e obiettivi. Sono influenzati dalla loro posizione e dal loro carattere, soggetti alla politica, alla vanità e ai risentimenti del potere. Quando decidono di intraprendere un programma di ricerca, è difficile farli desistere. Sono, dice Strevens, «troppo umani». Come si spiega, dunque, il trionfo della scienza moderna? Si potrebbe rispondere che, nei loro incarichi professionali, questi scarmigliati in camice bianco debbano passare da… beh, da scienziati. Hanno tutti sottoscritto un medesimo protocollo di comportamento condiviso. Quando scrivono i loro articoli, ambiscono a lasciar fuori le animosità e le emozioni in un processo che Strevens definisce «sterilizzazione». In ambito scientifico, sottolinea, il ragionamento è riservato; l’argomentazione è pubblica.
Gli scettici sostengono che l’atteggiamento pubblico di obiettività è un espediente che nasconde la soggettività degli scienziati stessi. Quello che non afferrano è che il protocollo pubblico, la performance sul proscenio, è importante. È un’invenzione non solo utile, ma indispensabile: un’invenzione che crea la sua stessa realtà e da cui deriva una successione di fatti obiettivi in grado di cambiare il mondo. In sintesi, i ruoli sociali che scegliamo – inclusi quelli che ci fanno prendere le distanze da un’esplicita parzialità – hanno importanza.
La giurisprudenza è lontana da qualsiasi tipo di scienza. Si tenga presente, nondimeno, che dal 2008 al 2021 il risultato più frequente nella conta dei voti alla Corte Suprema è stato di nove a zero (Le decisioni all’unanimità hanno avuto frequenza variabile). Dal momento che i pronunciamenti di alto profilo sono quelli divisivi, ne siamo di gran lunga più consapevoli, ma quello che Posner chiama legalismo – interpretazioni statutarie, senza legami con questioni di guerra culturale – è ancora oggi la norma. E benché Posner, che trova molto da apprezzare nel realismo giuridico affermatosi un secolo fa, sia un sostenitore del pragmatismo – approccio consapevole ai risultati, esente da quella che egli definisce la «foglia di fico» di qualche modello di esegesi –, ammette che il giudice pragmatico è un «pragmatista obbligato». Intendeva dire che i giudici sono giustamente «incasellati da norme che esigono imparzialità, consapevolezza del fatto che l’importanza della legge è abbastanza prevedibile da guidare il comportamento di chi vi è soggetto (giudici inclusi!), e una doverosa considerazione dell’integrità della parola in contratti e statuti».
I protocolli di imparzialità fanno davvero una differenza. Non è che i giudici non sono politici; soprattutto nei casi non strettamente correlati alla giurisprudenza o alla Costituzione, sappiamo che lo sono. (...) Tuttavia, le normative dell’argomentazione giuridica di sicuro limitano la discrezionalità del giudice. Se fossimo incoraggiati a violare quelle normative, le nostre decisioni diventerebbero più politiche (o, per chi è dalla nostra parte, di principio). Quella foglia di fico ci rende un favore. Per piacere, lasciatela dove si trova.
Il giornalismo è un ambito più insidioso, perché alcuni eccellenti giornalisti sono esplicitamente alleati con una causa e lavorano per sistemi dichiaratamente politici. Nel XVIII e nel XIX secolo, i giornali perlopiù avevano la tendenza a essere organi di un partito. Concentriamoci, in ogni caso, sulle norme professionali che, nel secolo scorso o giù di lì, divennero consolidate nei media mainstream. Non alludo alla filosofia insolitamente selettiva del “Io non voto": perfino Thomas Hobbes distingueva tra fede e professione, tra quello che è nei nostri cuori e quello che è sulle nostre labbra. Nello stesso modo non dovremmo impegnarci nei confronti del falso equilibrio, il bothsidesism. L’obiettivo giusto è la correttezza, non l’equilibrio.
I ruoli sociali di cui sto parlando sono quelli nei quali ci troviamo a svolgere funzioni pubbliche, una categoria che si applica non solo ai funzionari di governo, ma anche alle persone che dirigono organizzazioni o imprese. È vero: ci sono alcune considerazioni pragmatiche da fare qui. Se sei un funzionario di un college statale, e dipendi dagli stanziamenti della legislatura, la previdenza del tuo istituto può vietarti di comunicare le tue opinionisulle armi. «Il mio lavoro è farmi degli amici e influenzare le persone» ha detto a The Chronicle of Higher Education il presidente di un college statale in Georgia. Gli amministratori possono fare fatica a mantenere i rapporti con molteplici tipologie di elettori: amministratori fiduciari, ex-alunni, corpo accademico, studenti. Di conseguenza, prestano grande alle posizioni che assumono (...). Qui, però, vi è un altro obiettivo: assicurare a chi fa parte di una comunità eclettica che tutti saranno trattati con rispetto. Se dirigi un’azienda, i tuoi dipendenti vogliono essere rassicurati che li tratterai con equità. Se sei il presidente di un’università, determinati gruppi di studenti non dovrebbero avere la percezione che nutri risentimento nei loro confronti. Qui imparzialità è nel senso di rispetto: la promessa che le persone non saranno sfavorite a causa della loro identità. Questo non include la pretesa che a livello personale tu non abbia opinioni, ma può includere l’astenersi dall’esprimerne alcune. La fede non dev’essere professione.
Le nostre funzioni pubbliche non sono un espediente, quando il nostro impegno nei confronti di tali funzioni è reale. La teoria critica, a lungo colonna portante dell’istruzione umanistica, ci insegna a guardare oltre i gesti di disinteresse, la retorica del distacco, l’atteggiamento di imparzialità. Il problema subentra quando vedere oltre qualcosa ci impedisce di vedere qualcosa. Pensare che quello che accade dietro le quinte è la verità mentre quello che accade sul proscenio è un menzogna è un’illusione puerile. In quanto individui, siamo legittimati a combattere per ciò in cui crediamo. In una società pluralistica, però, l’ideale di imparzialità contribuisce a mantenere equo il combattimento. —
Traduzione di Anna Bissanti