La Stampa, 1 maggio 2023
Il 1° maggio secondo Maurizio Maggiani
«Su fratelli, su compagne, su, venite in fitta schiera: sulla libera bandiera splende il sol dell’avvenir». A Filippo Turati, che l’aveva scritto, il canto dei lavoratori non piaceva un granché, pensava che i lavoratori meritassero una penna migliore della sua, io ero ancora alle elementari che lo sapevo già a memoria. Non che me mi avesse istigato qualcuno a farlo, ma per quella misteriosa attitudine dei bambini a imparare per conto loro e per insondabili ragioni cose lontane, per niente infantili. Il fatto è che a me piaceva e ancora adesso piace da non dire quel canto, mi riempie di commozione e di nostalgia, era il canto di mio padre e dei suoi compagni nel giorno della loro festa, una festa bellissima in un giorno che era sempre un bellissimo giorno di primavera, il sol dell’avvenire splendeva alto nel cielo, marezzava di riflessi dorati le loro bandiere. In quel giorno sfilavano per la città i lavoratori e la città era tutta per loro, quel giorno erano i principi della repubblica, l’orgoglio della nazione. Mio padre mi portava con sé, voleva che lo vedessi fiero e ridente, voleva che sapessi qualcosa di lui che non era pena e fatica.
Si sbarbava allo specchio appeso alla finestra, si profumava di acqua di colonia e si vestiva con il suo abito da sposo, non aveva che quello, ma mia madre sapeva tenerlo da conto, sembrava sempre nuovo. Per me, finché ci sono stato dentro c’era quello della prima comunione, e la riga di lato nei capelli inumiditi con un po’ di brillantina, una riga bella dritta, tracciata con la maestria della mano di un operaio provetto. Mi prendeva per mano e scendevamo giù in piazza, prima cosa il giornale, l’Avanti!, lo piegava per bene e lo metteva nella tasca della giacca perché si vedesse bene quello che era, il giornale dei lavoratori. E poi a passo allegro incontro alla città, linda e pettinata tutta quanta anche lei, profumata dei fiori degli aranci sul corso, tutta uno sbandierio tricolore ai lampioni, sui fili del tram. E il corteo, tutto un salutarsi tra amici, tra compagni, tutti vestiti a festa, tutti sposi, tutti signori, le operaie della Filanda con le loro cappe inghirlandate di pizzi, quelle della San Giorgio in ghingheri come per andare al ballo. E io schiacciato lì tra gli odori dei profumi dei maschi e delle femmine, qualcuno mi scarruffava i capelli, mi salutavano, ehi ma come cresce il figlio di Dinetto, e mi sembrava che fossero tutti miei padri e madri, miei zii e zie, che tutti mi volessero bene, qualcuno portava il suo figliolino a cavallina che da lassù mi faceva ciao. E i lavoratori andavano per la città con la banda che suonava musiche stravaganti, in mezzo qualche canzone di Sanremo, i marciapiedi erano pieni di gente che salutava, ragazze vestite con grandi gonne a fiori e un fazzoletto rosso al collo lanciavano garofani rossi che i lavoratori raccoglievano e si mettevano al bavero.
Mio padre ne prendeva uno anche per me e me lo appuntava, e allora anch’io mi sentivo un principe. I maschi portavano tutti il cappello quel giorno, e lo sventolavano alle ragazze dei garofani, almeno oggi, dicevano, ci scappelliamo solo per loro. Da delle grandi trombe appese ai pini della piazza declamavano parole che capivo e non capivo, ma alla fine tuonava per voce di un coro che doveva essere il più grande di tutti i cori del mondo il canto «Su fratelli, su compagne, su, venite in fitta schiera: sulla libera bandiera splende il sol dell’avvenir». E poi siccome era festa, c’era l’aperitivo; attorno ai banchetti dei muscolai i lavoratori si facevano dodici cozze crude spruzzate di limone e due bicchieri di bianco alla salute, per me nel bicchiere c’era uno schizzo di vino nella gazzosa, e mi bastava a sentirmi un po’ così, che non sapevo come. A mezzogiorno via di corsa a prendere mia madre con tutte le sue sporte e su di filato alla collina, nei prati della madonna dell’Olmo a sgranare fave e addentare salati belli salati e formaggio bello dolce. La sera, a letto, in silenzio imparavo a memoria il canto dei lavoratori. «Su fratelli, su compagne, su, venite in fitta schiera: sulla libera bandiera splende il sol dell’avvenir».
Già, un altro tempo, così altro che se non sto ben attento mi sembra di raccontare una storia di remoto folklore popolare. E non è questo, è invece storia piuttosto recente, storia della lotta di classe per essere precisi, nel tempo in cui, al trasecolare del ’900 il conflitto tra capitale e lavoro volgeva a favore del lavoro. Il tempo in cui la Repubblica fondata sul lavoro splendeva di una sua promettente primavera, e mio padre tornava a casa una sera con un cabaret di paste in mano e il contratto nazionale in tasca. Oggi è inverno anche a maggio per i lavoratori, non gli sono concesse ragioni di orgoglio perché si concedano a far festa, la storia ha voltato altrove. Per i privilegiati tra loro cui è riconosciuto il giorno festivo, l’opportunità più consona che gli è data di gioire di sé è lasciar perdere prati, fave e formaggi e starsene a guardare alla tivù di stato il concerto di musiche varie pagato con i loro contributi sindacali; naturalmente nessuno tra i musicisti si sogna di eseguire il loro canto, foss’anche in livrea rock, o rap, o pop, o melodico millennial, del resto le parole sono troppo antiche e in fondo la musica non è che una marcia, e a piazza San Giovanni non si arriva marciando. Là dove per le cento disadorne città d’Italia ci sono ancora il primo giorno di maggio lavoratori in marcia, in quegli occhi, in quelle mani, in quell’andare di un’altra generazione eppure non così diversi da quelli del secolo passato, è assai più facile rinvenire rabbia e delusione che orgoglio; e dolore, dolore per i morti, i morti, ancora i morti. E nessuno che lanci loro fiori, i garofani rossi vanno ordinati per tempo in Olanda data l’insignificante richiesta nazionale. Il sole che li scalderà alto nel cielo non preannuncia avvenire ma siccità; i principi della Repubblica non hanno più repubblica, che intanto si è lasciata rifondare diversamente, e astutamente il governo userà questo giorno per lavorare alacremente, intendendo per il bene loro, sottintendendo che la nuova repubblica richiede un diverso calendario.
È così che dovevano andare le cose? È così che dovranno andare? Io non lo so, so solo che la storia non finisce mai, non finché ci saranno umani, visto che tutto quello che gli umani fanno è questo, è storia. Il sistema che oggi li regge per tutto il globo è sistema di rapina, rapina di risorse, di uomini, rapina di lavoro, si nutre di questo, di un incendio universale, e non ci sarà modo in questo incendio di spegnere il conflitto; nel conflitto che non si dà soluzione i rapporti di forza sono per principio e esperienza mutevoli, vedremo, vedranno. Qualche tempo fa, passeggiando nella notte per Rio de Janeiro ho incontrato una piazza gremita di gente oscura, vociante e bevente, dormiente su strapuntini irrisori, sguardi incomprensibili; ho esitato, ma la mia accompagnatrice mi ha rassicurato, não tenha medo, são trabalhadores, non avere paura, sono lavoratori. Passavano la notte in quella e altre piazze perché il loro salario non gli permetteva l’autobus per tornare alla loro favela, sempre che un autobus ci fosse. La mia accompagnatrice fa un lavoro intellettuale meglio pagato del loro, ma mi ha parlato dei trabalhadores con un orgoglio che era identico a quello di mio padre per ciò che era. No, Jasmine, non ho paura dei lavoratori, mi fanno solo paura i ladri del loro lavoro, i rapinatori della loro vita.