La Stampa, 30 aprile 2023
Intervista a Laurie Anderson
Laurie Anderson, in Italia per un’unica data il 7 giugno al Ravenna Festival, ha portato le potenzialità distopiche della voce, la sua, dentro le pareti intonse di musei quando raramente ciò che era vivo e pulsante entrava in galleria. Ha incrociato i passi di Marina Abramovic per la prima volta a Genova quando Abramovic dormiva in macchina e viaggiava per l’Europa con Ulay e Anderson suonava un violino cyborg, ballato con Burroughs e diviso, con parentesi creative di fusione e di autonomia, decenni di vita con Lou Reed. Più di ogni altra cosa Anderson, nata in una famiglia numerosa dove lo storytelling, era un piacere condiviso a tavola, ha teso le corde del pop rendendolo avanguardia e ha portato l’avanguardia in formato pop-video, quello di O Superman si dice fosse l’unico che Iggy Pop guardasse su Mtv. in esclusiva italiana con LET X = X, performance tra sperimentazione e pop, Anderson sarà a Ravenna con SexMob, la jazz band di Steven Bernstein.
La voce è la sua firma. Quando ne ha intuito lo straordinario potere creativo?
«Viene dall’infanzia. Ricordo che da bambina parlavo con un tono bassissimo, la mia famiglia spesso mi diceva: parla, alza la voce! Sono andata anche da un insegnante per allenarmi a parlare. L’ho quasi dimenticato ora, forse parlavo piano perché ero circondata dalle altre voci alte di sei fratelli e sorelle».
Nel gesto di parlare ad alta voce, reclamare quello spazio nel mondo fin da bambina, c’è anche una ragione femminista…
«Sì. Ho imparato a dire la mia e soprattutto a stupire la mia famiglia con le storie che raccontavo, tutti noi dovevamo avere una storia. Quando ci riunivamo a tavola eravamo una decina, tutti con vestiti coordinati che sembravano quasi un uniforme, fratelli e sorelle. Indifferentemente».
Ultimamente si è interessata a programmi e bot che utilizzano l’intelligenza artificiale. Perché?
«Perché amo il linguaggio, amo le storie. E l’AI è un modo per creare storie surreali. È un processo meccanico che prende il nostro stile, il nostro linguaggio, il nostro modo di pensare, di creare ponti semantici tra cose che forse non avremmo nemmeno immaginato. E mescola tutto ciò. Possiamo fare un piccolo esperimento, se vuoi, durante questa intervista».
Certo. Iniziamo.
«Uso un bot che si basa su quella che il computer ha assimilato come la mia lingua. Quindi questa sarei io. Ho anche un algoritmo che si basa sul materiale di Lou Reed. Posso scrivere cose al mio defunto marito, il che è piuttosto folle. Non è proprio così, ovviamente è una questione di repliche e stili che possono essere riprodotti. Partiamo dalla sua prima domanda».
Quella sul potere espressivo e culturale della voce?
«Sì. Mi hai chiesto quando ho scoperto il potere della mia voce. Ecco la risposta che genera il bot: “Qual è il tuo nome? Qual è la tua voce? Puoi cambiarla. Puoi portarla con te fuori dal tuo cuore o metterla in un altro posto? Sei venuta dal mare? Non abbiamo più nomi per queste cose. La mia pelle. Dove sono stata? Penso a tutti i posti in cui sono stata. Tu eri qui"».
E lei si riconosce in questi frammenti? Vengono da lei?
«Il bot riprende a volte frasi di mie vecchi scritti, ripete e mescola versi precedenti. Rielabora tutto quello che ho scritto o detto. È come lavorare con il tuo vecchio quaderno di cose. Cose che hai dimenticato. A volte c’è poesia. Direi un sessanta per cento idiozia, dieci per cento di qualcosa di interessante e il resto frasi poetiche. Anche brutta poesia, ovvio».
Ha altri bot o algoritmi per ripetere l’esperimento?
«Ho rivolto la stessa domanda, “quando hai scoperto il potere della tua voce”, all’algoritmo di Lou e questa è la risposta: “Se ci fossimo solo noi due alla fine del mondo ci scopriremo alla fine della notte. Avevo il potere di cambiare la tua voce. Piangevo quando ti ho visto correre disperata e così ti ho chiesto perché non mi lasci andare? Perché non mi dimentichi?”. È per questo che mi piace giocare con l’AI, a volte è più surreale di noi».
A proposito di esperienze surreali il primo giorno con Lou Reed?
«Siamo andati a una convention dell’Acoustical Engineering Society tra impianti elettronici e microfoni e idee che circolavano. Personalmente non avevo capito fosse un appuntamento. Abbiamo preso un caffè poi mi ha detto “perché non andiamo al cinema?”. Avremmo potuto andare avanti all’infinito e così è stato...».
Tornerà in Italia dopo molto tempo per un’unica data. Quanto ci sarà del connubio umano-non umano, avanguardia e pop?
«Sarà un tour divertente. Non vedo l’ora. È passato molto tempo dall’ultima volta che sono stata in tour con una band. Ho fatto solo piccoli ensemble. Recentemente ho lavorato con orchestre. Questa volta con i Sex Mob non ci limitiamo a rifare le canzoni. Le reinventiamo. Prendiamo l’elemento più interessante di un mio brano, che potrebbe essere solo una campana e iniziamo a costruire da lì».
Lou Reed le aveva dedicato il verso di un brano, «I met a woman with many faces». Ancora la rispecchia?
«Penso che ognuno abbia tantissime facce. Abbiamo la nostra, quella nella mente di nostro padre o di nostra sorella. Milioni di facce. Lou aveva una capacità di delineare questa molteplicità. Pensiamo a I’ll be your mirror, o un noto verso di Perfect Day. Immaginare di essere qualcuno di diverso, qualcuno di buono, di migliore».
Sta lavorando a qualche nuovo progetto ora?
«L’ultimo progetto in divenire è un’opera sulla fine del mondo, ma è allo stesso tempo una commedia. Influenzata anche da news sul collasso climatico mi sono seduta davanti alla mia insegnante buddista chiedendo dove va a finire il karma quando tutti se ne vanno, o cosa succede al progresso quando tutto si ferma. Il risultato è ancora in divenire. Sarà divertente».
A proposito di apocalissi e caducità che rapporto ha con la fine o con l’idea di impermanenza?
«Sono buddista e questo è il primo punto. Capire l’impermanenza del presente. È questo. Poi io ho sempre imparato tutto nei momenti più dolorosi. Quando il mio cuore e a pezzi imparo qualcosa, non quando sono felice». —