La Stampa, 30 aprile 2023
Intervista a Anthony Fauci
Era un incarico impossibile, forse. Fare di un uomo il volto della sanità pubblica nel pieno di una pandemia senza precedenti, in un Paese litigioso come gli Stati Uniti, dove ci sarebbero state delusioni e insoddisfazioni, e dove si sarebbe andati sul personale. Ciò nonostante, nel dicembre scorso, quando Elon Musk ha scherzato su Twitter rivolgendosi a lui scrivendo «Incriminate Fauci», si è avuta la sensazione che si profilasse un’inversione di tendenza contro colui che ha ricoperto quel ruolo fondamentale per i primi tre anni della pandemia. Almeno 30 legislature hanno approvato leggi che limitano i poteri della sanità pubblica nelle pandemie. A gennaio, a un mese di distanza da quando Anthony Fauci è andato in pensione dopo essere stato per quarant’anni a capo dell’Istituto nazionale per le allergie e le malattie infettive, soltanto la metà degli americani ha detto di avere fiducia nella gestione di una futura eventuale pandemia da parte delle istituzioni della sanità pubblica.
Naturalmente, sono stati commessi errori e ci sono stati passi falsi, compresi alcuni fatti da Fauci: quando ha definito «piccolissimo» il rischio per il Paese nel febbraio 2020, per esempio; oppure quando, in un primo tempo, ha sconsigliato di indossare le mascherine, spostando poi lentamente la sua attenzione verso le goccioline di saliva che si diffondono in aria; o quando ha minimizzato il rischio di quelle che all’inizio, nell’estate del 2021, sono state chiamate «infezioni intercorrenti». Più in generale, anche l’establishment della sanità che Fauci è arrivato a impersonare ha commesso errori, pur non essendo sempre facile comprendere all’epoca o individuare più avanti chi fosse esattamente il responsabile. Probabilmente le scuole sono rimaste chiuse più a lungo di quanto fosse necessario. Come è evidente, poi, la percentuale di vaccinazioni in America non si è mai avvicinata ai livelli di altre nazioni simili e il problema non è stato solo legato al diritto di opporsi al vaccino. Per parecchie ore e in molti collegamenti su Zoom e phone call, ho parlato con Fauci di questo: come considerava l’intera vicenda di questa storica emergenza della sanità pubblica e il ruolo che ha ricoperto in essa. In qualche caso è stato sulla difensiva, perfino battagliero, soprattutto quando abbiamo parlato di episodi nei quali ha ritenuto che le sue posizioni fossero state fraintese e sulle origini della pandemia. Nel complesso, però, è stato pensieroso, perfino umile, soprattutto in relazione a come il Covid-19 ha messo in rilievo tutti i limiti della sanità pubblica e come, da quello che ha raccontato, il virus ha colto di sorpresa lui e i suoi colleghi scienziati.
Tre anni fa, nel marzo 2020, lei e molti altri avvertirono che il Covid avrebbe potuto provocare centomila o duecentomila morti in America, perorando la causa di interventi alquanto drastici nel nostro modo di vivere la quotidianità. All’epoca lei pensò che “lo scenario peggiore” di più di un milione di morti fosse alquanto improbabile. Invece, eccoci qui, a tre anni di distanza e, pur avendo fatto molto per cercare di fermare la diffusione del virus, abbiamo superato 1, 1 milioni di morti. Che cosa è andato storto? «Qualcosa chiaramente è andato storto. Non so esattamente che cosa. Ma il motivo per cui sappiamo che è andato storto è che siamo il Paese più ricco al mondo e su base pro capite abbiamo avuto risultati peggiori rispetto a quasi tutti gli altri Paesi. Non c’è ragione per cui un Paese ricco come il nostro debba avere 1, 1 milioni di morti. È inaccettabile».
Come lo spiega?
«Il dissenso era palpabile, anche solo quando si cercava di far passare un messaggio coerente su come seguire fondamentali principi di sanità pubblica. So che tra le persone ci saranno sempre divergenze di opinione e pareri contrastanti circa il bilancio tra costi e benefici delle restrizioni o dell’uso delle mascherine. Ma quando si hanno controversie importanti su cose come le vaccinazioni diventa tutto più complicato».
Ancora adesso, quando parliamo di risposta alla pandemia, ci concentriamo su argomenti come le scuole e le mascherine, mentre la mortalità da Covid è stata influenzata molto di più dalle percentuali di vaccinati nel Paese. Dall’Election Day del 2020 in America si è registrato il triplo delle morti rispetto a prima. Rispetto ad altri Paesi simili, inoltre, rispetto a prima abbiamo avuto risultati nettamente peggiori da quando sono iniziate le vaccinazioni.
«Beh, sì, è vaccinato soltanto il 68 per cento del Paese. Se ci si mette in classifica insieme ai Paesi sviluppati e a quelli in via di sviluppo, la nostra prestazione è davvero scadente. Non rientriamo nemmeno nei primi dieci Paesi al mondo, ma ci collochiamo molto più in basso. Per altro, ci sarebbe da chiedersi, poi, perché abbiamo “stati rossi” non vaccinati e stati blu vaccinati? Perché le percentuali di mortalità tra i repubblicani sono più alte rispetto a quelle tra i democratici e gli indipendenti? Quando c’è una crisi sanitaria come questa – come non se ne vedevano da oltre un secolo –, la situazione non dovrebbe mai presentarsi così, proprio mai. E questo è un punto. L’altro è che tutto ciò non ha niente a che vedere con il dissenso. Ha a che vedere con la rottura del nostro sistema sanitario in questo Paese. Abbiamo lasciato che il sistema della sanità pubblica locale e il sistema dell’assistenza sanitaria si logorassero in profondità. Questo vale un po’ per tutti i Paesi, ma nel nostro caso la situazione è davvero molto grave».
E che cosa può insegnarci questo, in termini di sanità pubblica in futuro?
«Abbiamo provato a fare del nostro meglio e nonostante questo abbiamo sbagliato, quindi, sbaglieremo a prescindere da quello che succederà la prossima volta. Non penso che questa sia una risposta adeguata. Penso che possiamo ancora migliorare in modo significativo. Il miglioramento può arrivare in due modi: primo, dalla capacità di intervento e dalla risposta della scienza; secondo, dalla capacità di intervento e dalla risposta della sanità pubblica. Riguardo ai vaccini, grazie agli innumerevoli e straordinari sforzi e risorse che abbiamo profuso per sviluppare piattaforme vaccinali e immunogeni ottimali, direi che abbiamo fatto una cosa che non ha precedenti».
Se si torna indietro nel tempo, però, e si va al febbraio 2020, lei ha detto che il virus era a basso rischio e non voleva mettere in gioco la sua credibilità per quello che avrebbe potuto rivelarsi un falso allarme. Vorrebbe aver detto con maggior energia che il virus era una minaccia reale e immediata e che dovevamo alzare le nostre difese all’istante?
«Sì, in retrospettiva penso che avremmo dovuto farlo, sicuramente. Analizziamo, però, quello che sapevamo all’epoca. Non conoscevamo queste cose a gennaio 2020. Non eravamo pienamente consapevoli di trovarci alle prese con un virus estremamente trasmissibile e che si stava chiaramente diffondendo con modalità senza precedenti e di cui non avevamo esperienza alcuna. Così all’inizio il virus ci ha ingannati e confusi sulla necessità di usare le mascherine e di arieggiare gli ambienti e di vietare le interazioni sociali».
I contagi asitomatici…
«Per me sono i contagi asintomatici ad aver cambiato drasticamente la situazione. Se ne fossimo stati consapevoli fin dall’inizio, la nostra strategia nell’affrontare i focolai in quelle prime settimane sarebbe stata diversa. Ecco, quando le persone mi chiedono se avremmo potuto fare di meglio, sì, naturalmente avremmo potuto. Se avessimo saputo molte delle cose che sappiamo adesso, di sicuro avremmo fatto le cose diversamente».
Ma con il senno di poi e con quello che sappiamo oggi, se avessimo adottato a metà febbraio le politiche che abbiamo adottato a metà marzo, la situazione sarebbe diversa oggi? La pandemia è stata molto lunga. Agire più rapidamente nei primi mesi avrebbe potuto cambiare la risposta generale?
«Non lo so. È plausibile che non ci troveremmo nella stessa situazione. Ma saremmo riusciti a fermare l’economia? Il Paese lo avrebbe accettato in presenza di una manciata soltanto di casi e di un morto? Non sto dicendo che questo sia un motivo per non farlo: se avessimo saputo quello che sappiamo oggi, probabilmente avremmo dovuto farlo. Ma, con pochi casi, non so se saremmo riusciti a fermare il Paese».
Ma al di là dell’evoluzione del virus, avremmo dovuto aspettarci l’immunità di gregge con un virus di questo tipo? A causa delle modalità con le quali si replica nelle vie aeree superiori e nelle mucose sembra impossibile fermare la trasmissione, è così?
«È vero, ma non c’entra. Questo rende più complicato ancora sapere chi è contagiato e può trasmettere il virus e chi no. In ogni caso, però, non cambia il concetto di immunità di gregge».
Abbiamo sbagliato, quindi, a presumere che dopo un certo numero di contagi e di vaccinazioni la malattia sarebbe scomparsa?
«Dipende da quello che si intende dicendo “scomparire”. Per alcune persone tenere a un livello relativamente basso i contagi nella comunità, così che la malattia non sconvolga la società, significa scomparire. Per altre persone significa altro: beh, sì, c’è ma non dà fastidio più di tanto. Attenzione, però: non è stato completamente fuori luogo pensare di poter essere protetti dal contagio, e che anche se ci si contagiava il titolo non sarebbe stato sufficientemente alto da trasmetterlo a qualcun altro. Poi abbiamo scoperto qualcosa di stupefacente. Abbiamo osservato che il titolo del virus nelle persone contagiate e asintomatiche e quello di un virus nel naso di una persona contagiata sintomatica era il medesimo. Come mai? Che cosa è successo? È stata una grossa sorpresa. Quindi avevamo torto, ma non perché non avessimo interpretato correttamente i dati che avevamo davanti. Non avevamo mai raccolto dati così. All’inizio ignoravamo che il 50-60 per cento dei contagi sarebbe stato asintomatico. Scoprirlo è stato stupefacente. Quando ho visto quei dati, mi sono detto: “È completamente diverso. Siamo alle prese con una malattia che non abbiamo mai visto prima"».
Pensa che l’esperienza della pandemia – e la possibilità, per quanto remota, della fuga da laboratorio – dovrebbe modificare il nostro modo di valutare i rischi e i vantaggi di tutto questo settore di ricerca?
«È indispensabile che l’intero iter che coinvolge il contributo scientifico e quello della comunità sia trasparente dall’inizio alla fine. Questo tipo di ricerca scientifica consente di manipolare un virus o un agente patogeno per acquisire una determinata funzione che renda possibile la realizzazione di un vaccino. Quindi, prima di tutto dobbiamo adoperarci per far capire meglio alla gente che cosa è il “guadagno di funzione”. Quando Rand Paul mi stato chiesto se avessi finanziato la ricerca a Wuhan, ho risposto “assolutamente no”. È meglio definire con precisione di che cosa stiamo parlando».
Se lei avesse a disposizione un budget illimitato e dovesse progettare i nostri sistemi da zero, quale sarebbe la priorità numero uno?
«Non ci serve un budget illimitato. Ci serve un impegno costante nei confronti della scienza e della sanità pubblica. Spendere 5 miliardi di dollari per l’Operazione Warp Speed per i vaccini della prossima generazione di coronavirus è fantastico. Ma poi la prossima pandemia potrà arrivare tra 25 anni. O forse tra 50. Teniamo bene a mente che l’ultima pandemia che cambiò radicalmente le cose fu nel 1918. Ci sono state pandemie nel 1957, nel 1968 e nel 2009, ma quasi nessuno se ne è accorto».
Che mi dice della capacità di intervento nei confronti della pandemia più in generale? Supponiamo di dover partire da zero e di dover mettere a punto un sistema su una lavagna bianca. Quali riforme sono necessarie?
«Se si osserva bene, quello che ha funzionato per noi è arrivato dalla scienza: gli straordinari investimenti che sono stati fatti per decenni prima che comparisse il SARS-CoV-2. Il lavoro nelle piattaforme tecnologiche ha portato a rivoluzionare radicalmente il modo di mettere a punto i vaccini. Inoltre va considerata la progettazione immunogena basata sulla struttura: anche questo ha contribuito alla progettazione antivirale ed è stata la parte meno considerata. Insomma: fatemi vedere qualcuno che si è vaccinato, è stato contagiato, ha assunto il farmaco antivirale Paxlovid ed è morto. Non se ne trova nemmeno uno. Osserviamo poi quello che non abbiamo fatto tanto bene nell’ambito delle infrastrutture, delle comunicazioni e della trasparenza. Tutte cose che hanno a che vedere con la sanità pubblica. Avevamo un sistema sanitario che pensavamo fosse molto buono. Invece era davvero molto antiquato. Non sapevamo neppure che cosa stesse accadendo in un momento specifico. Ora, non intendo criticare i Cdc (ndr Centers for Disease Control and Prevention: si tratta dell’ente governativo americano che è responsabile delle principali decisioni e raccomandazioni in tema di salute pubblica). Per primi riconoscono di dover aggiornare al XXI secolo le loro informazioni. Poi avevano quella che si può definire una cultura accademica, dove nessuno dice niente finché prima non lo si mette per iscritto e lo si pubblica, mentre adesso sappiamo che è indispensabile sapere subito quello che sta accadendo. Di conseguenza, cercando di raccogliere informazioni sulla pandemia, abbiamo dovuto fare affidamento su conferenze telefoniche nel cuore della notte o all’alba con Israele, il Sudafrica, l’Unione europea, i nostri colleghi nel Regno Unito. Dobbiamo cambiare questo sistema. Ogni giorno dobbiamo sapere: quali sono le varianti? Quali sono le loro mutazioni? Quante persone si stanno contagiando? Invece, eravamo del tutto all’oscuro. Andavamo avanti al buio. Sono un medico. Questa è la mia identità. In un certo periodo della mia vita, durante i primi anni dell’Hiv, mi sono preso cura di migliaia di pazienti. Credo di aver visto tante sofferenze e tanti morti quanto chiunque altro nella sua carriera, forse di più. Non vorrei sembrare un moralista, ma non mi piace vedere soffrire le persone e non vorrei vederle morire». —
Traduzione di Anna Bissanti