Corriere della Sera, 30 aprile 2023
Biografia di Laura Chiatti
L aura Chiatti, nel film di suo marito Marco Bocci, La caccia, che esce l’11 maggio, è con i suoi tre fratelli. Si riuniscono dopo la morte improvvisa del padre. L’eredità nasconde una terribile verità.
Nel film tre maschi e lei, che interpreta una tossicodipendente.
«Non credo che la droga sia un aspetto così importante, quello è un passaggio che Silvia (si chiama così il mio personaggio) attraversa per raggiungere un obiettivo che la porta a scansare un passato da dimenticare nella sua disastrata famiglia. È un ruolo a cui sono legata perché in genere mi chiamano per commedie romantiche, dove sono o fatalona o leggerina, e non si guarda mai l’oltre. Invece Marco col mio oltre, con l’aspetto più nero e intimista, ci vive ogni giorno. Ho sempre cercato di camuffare la mia inquietudine».
Il cinema cambia le carte.
«Io vivo tra lacune, rimpianti, insicurezze. Conosco i miei limiti. L’inglese, per dirne uno, lo capisco ma non lo parlo bene, sono pigra, ho dovuto rinunciare a film importanti, anche se quando Sofia Coppola mi prese per Somewhere, con cui vinse a Venezia, imparai la parte tre mesi prima. Uno dei temi di questo film è che Silvia ha accusato in modo più violento i traumi dell’infanzia e ha cercato di trasformarli nell’obiettivo della maternità, attraverso un’altra persona, per mettere al mondo una vita che le faccia dimenticare la sua».
Ma lei nella vita, dopo avere avuto due figli, è sempre così insicura?
«Con la maternità alcune cose si acuiscono e altre si attenuano, Enea e Pablo mi fanno sentire il tempo che passa. Sono apprensiva verso me stessa, a volte si lamentano per i troppi compiti e dico, eh, anche per me era lo stesso. Io non mi vedo così autoritaria».
Non era anche ipocondriaca?
«Questo è un discorsone. Sono un tipo di ipocondriaca al contrario. Non faccio nemmeno mezza visita medica, mi autodiagnostico. Poi per paura vado su Google e resto sempre col dubbio. È un auto-sabotaggio continuo. Però cinque anni fa Marco, mio marito, ha avuto una encefalite, eravamo in camera da letto, sono stata tempestiva nel soccorrerlo. È stato miracolato, difficilmente se ne esce vivi. Quel giorno ho capito la fine della gioventù, la fragilità».
Com’è stato lavorare diretta da suo marito?
«Quando litigavamo gli dicevo: guarda che non lo faccio il film, eh. Ma non ci credeva. Sul set non ho ansia da prestazione, mi diverto, so quello che posso fare bene o meno bene, con Marco ero in ansia perché non ci avevo mai lavorato, lui ama ricevere dagli attori, ne studia la psicologia, è un regista randagio».
E lei è una donna libera.
«Non vado dietro al gregge. E non è un vantaggio. Ho perso incontri, possibilità, film. Sono nata libera e indipendente. Ho cominciato a 14 anni, sono cresciuta in Umbria, in una piccola realtà diversa da Roma o Milano. Canticchiavo, partecipavo ai concorsi di canto, la passione poteva essere quella. Al cinema ho cominciato per caso cercando di capire cosa potesse essere questo lavoro».
Ma da ragazzina cosa sognava di fare?
«La parrucchiera. Il sabato accompagnavo mamma a farsi i capelli e quella era la mia dimensione reale. Venendo dalla provincia, al cinema mi autogestivo, non avendo una formazione teatrale mi sentivo inadeguata. Sul set di Sorrentino, per L’amico di famiglia, ho capito che questo sarebbe diventato il mio lavoro. Venivo da Un posto al sole, Paolo è un regista che giustamente pretende. Non sono mai stata omologata perché non mi sono mai vista uguale alle altre attrici. Ma ho dei riferimenti, sono Golino dipendente. È la mia eroina. Anche lei è libera».
Ha ancora una venerazione per Kate Moss?
«Ora un po’ meno. Le ho regalato un anello, avevo una tee-shirt col suo volto. Ho visto che sua figlia Lila fa l’indossatrice col cerotto, senza nascondere il diabete. È bellissima. Di recente sono rimasta colpita da una delle figlie di Monica Bellucci, che al tempo del film di Giovanni Veronesi, Manuale d’amore 3, quello con De Niro, tenevo in braccio. Era una bambina. Mi fa strano che sia diventata una donna».
Lei è stata lanciata da Federico Moccia.
«No, il regista di Ho voglia di te è Luis Prieto, Moccia aveva scritto il libro da cui è tratto il film, non so lui che fine abbia fatto. Quel film cementò il sodalizio di ferro con Riccardo Scamarcio. L’ho conosciuto a 16 anni, ora vado per i 41. La nostra coppia al cinema andò avanti un bel po’, non so perché. Siamo ancora molto amici».
Essere liberi in un ambiente conformista come il cinema.
«Hai presente quando sei a tavola con altri attori e tutti parlano male di un personaggio politico di destra e io dico che mi sta simpatico? Divento la pecora nera. Me ne sono sempre fregata, non si tratta di essere di destra o di sinistra. Non sto parlando di politica ma di dinamiche che non mi appartengono. Non fingo di essere una intellettuale per avere più credibilità. Sintetizzando in maniera cruda, mi sento più vicina a Valeria Marini che a Laura Morante. Sono istrionica, non ho un’identità precisa, non penso che si possa essere solo in un certo modo, al cinema mi piacciono film di serie A e di serie C».
Torniamo a lei cantante da ragazzina.
«Cantavo alle sagre, in Umbria era atteso per una serata di karaoke Fiorello, di cui ero innamorata, avevo il poster, quelle cose lì, lui lo sa. Quella sera al suo posto arrivò il fratello, Beppe. Io cantai Ma non ho più la mia città di Gerardina Trovato. Ne ho un ricordo bello e malinconico, ho sempre una lieve angoscia che mi accompagna, non vivo mai con spensieratezza, la timidezza che nessuno vede non mi molla. Ero una ribelle, un cavallo imbizzarrito dicevano i prof, ma non in modo insano, avevo 6 in condotta, in classe saltavo dalla finestra e dopo la ricreazione non rientravo, nulla di trascendentale».
Lei viene da una famiglia modesta, giusto?
«Estremamente modesta. Sono cresciuta a Villa di Magione, vicino Perugia. Mio padre faceva il metalmeccanico e rientrava a casa tardi con la tuta piena di grasso e olio, mamma era segretaria nel negozio di maglieria della zia. Sono cresciuta con la nonna, autoritaria ma mi viziava per quanto possibile. Le insegnai io a leggere. Il pomeriggio lo passavo al baretto vicino casa. Le mie amiche, quando tornai dal Festival di Cannes con il ramo di una palma, giocando su quella che danno alla migliore attrice, l’hanno impressa insieme alle impronte delle mie mani sul cemento di una strada, come fanno ai divi in Usa. La mia Hollywood è in una frazione di Perugia. A Cannes ero andata per il film di Sorrentino, i giornali francesi mi definirono la nuova Brigitte Bardot e ne fui lusingata».
I social?
«Mi azzuffo spesso con gli haters, non sopporto quando mi toccano la famiglia o mi dicono che sono diventata anoressica. Reagisco con cinismo o ironia. Avevo preso dieci chili dopo le due gravidanze, li ho persi con una nutrizionista. E mi insultano. Sono sempre stata 53 chili».
E il complesso dell’altezza?
«Ah, quello non ce l’ho più. Sono 1 e 67, per una vita mettevo i tacchi anche se facevo ginnastica. Non sono più abituata, quando certe volte di sera li metto, traballo. Come faccio, gioco a pallone con i miei figli, a volte in porta a volte all’attacco. Ho un animo maschile, cameratesco. Adesso girerò un film con tutte femmine ma non sono preoccupata perché ci conosciamo già tutte, è il seguito di Addio al nubilato».
Nel primo film baciava un’altra donna.
«Lo farò anche nel secondo. Le scene intime sono noiose. Come puoi fare una scena di sesso? È strano, parliamoci chiaro. Esci di casa, vai a lavorare e baci uno che a volte non hai mai visto prima. È sempre imbarazzante, anche per una come me. Sono mezzo uomo e non ho pudore. Io sul set in quelle situazioni non distinguo tra uomo o donna. Se nasce qualcosa con un collega, nasce fuori da quelle scene».
E invece come fu il suo addio al nubilato?
«Meraviglioso e doloroso, aspettavo già Enea, ebbi un distacco di placenta che mi costrinse a letto per venti giorni. Le mie amiche mi organizzarono una festa nel giardino della casa in Umbria dove sono cresciuta. Mi hanno fatto trovare un trono. Io seduta, spettatrice, loro che ballavano. C’era una drag queen e la gigantografia di Kate Moss. Che giornata pazzesca».
Prima ha detto di aver perso occasioni per la sua voglia di libertà.
«Le racconto un episodio che mi fa ancora male. Non dirò il nome, ma un regista molto importante, per un film molto importante, mi fece un provino e mi prese. Al secondo provino mi presentai come sono io, con la tuta e le pinze per fermare i capelli. Mi disse che ci aveva ripensato, avevo un’aria troppo leggera e spensierata per quel ruolo drammatico. Lì mi arrabbiai e gliene dissi di tutti i colori. Perché, non avrei tirato fuori la sofferenza durante le riprese? Io le cose le dico in maniera sfacciata e a volte mi precludo delle occasioni».
Tra la famiglia e il cinema?
«Non ho dubbi, scelgo la famiglia. Ho appena rinunciato a una serie in Trentino che mi avrebbe portato via sei mesi da casa».
Siete belli, lei e suo marito. Gelosi?
«Lui lo è. Io non ho mai letto i messaggi sui cellulari degli altri e del suo: sono come le malattie, visiti visiti e alla fine qualcosa trovi».
Laura, ogni volta che ci parliamo facciamo il conto dei suoi tatuaggi.
«Sono rimasti 14, lì dov’è possibile la copertura. Sono i cicli della vita. Gli ultimi sono i cuoricini dei miei due figli, Enea ha 8 anni e Pablo 6».
Lei è il Totti delle attrici. Libera, diretta, spontanea. Le mancano solo le barzellette.
«Io mi vedo come una che lascia tutto a metà, fatalista. Invece di combattere mi dico, sarà quel che sarà».
Sì, ma fossero tutte vere e simpatiche come lei, le attrici...