Corriere della Sera, 30 aprile 2023
Una notte con i medici di guardia. Reportage
La voce è vellutata, come filtrata da un panno. Le frasi volutamente rallentate, come per apparire incerte. La dottoressa Rossella Prisco, medico della centrale continuità assistenziale di Roma e provincia (ma tutti la chiamiamo ancora guardia medica), non si lascia suggestionare. Dopo 20 anni di questo lavoro sa bene distinguere i veri malati da quelli immaginari, desiderosi di un pizzico di attenzione. Malati anch’essi, di solitudine. «Mi dica, cosa c’è che non va?», indaga dopo aver registrato nome, indirizzo e orario del contatto, le 22 di un mercoledì di aprile. «È un problema che riguarda direttamente me – le risponde Lisa, 26 anni, accento dell’est, vocina flebile, pare una bimba —. Volevo sapere se mi consiglia di andare al pronto soccorso. Da domenica ho un forte mal di testa. Ho preso delle pillole ma la febbre sale e scende e ora non so che pensare. Il dolore non passa, sono preoccupata. Sa, ho il morbo di Chron e prendo altri farmaci. Non vorrei che...». Rossella la incalza gentile con le domande e Lisa cade in contraddizione, improvvisando versioni diverse ogni minuto che passa. Non è la prima volta che contatta lo 06.58526811, il numero unico di un servizio di cui spesso sfugge la funzione. Una trentina di operatori per turno fra medici, infermieri e psicologi chini sulla tastiera, immersi nell’ascolto. «Mio figlio ha la febbre altissima, il termometro non va giù...». «Ho dato di stomaco tutto il giorno, mi sento svenire...». I casi in apparenza lievi passano alle competenze degli infermieri, quelli che sembrano sottintendere un’urgenza vengono trattati dai medici.
Gli ambulatori territoriali
Da qui, una centrale della Regione Lazio con sede vicino a Cinecittà, la telefonata viene smistata se necessario a uno dei 51 ambulatori territoriali dove sono in servizio uno o a volte due medici per postazione, incaricati di prestare visita domiciliare o di redigere un certificato di malattia da inviare al datore di lavoro il giorno successivo, due delle richieste più frequenti. L’Italia non è tutta uguale. A volte come nel Lazio c’è una sala operativa unica, di coordinamento. Altre volte non c’è anche se ci dovrebbe essere e il cittadino che si trova senza riferimenti va a bussare direttamente alla porta del medico con le conseguenze che ne derivano sul piano della sicurezza. Manca la sorveglianza, in questi luoghi, e ogni tanto qualche operatore che non può soddisfare la richiesta viene picchiato o ricoperto di ingiurie, bene che vada.
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Tra aggressioni fisiche e offese
L’episodio simbolo riguarda Adelaide Andriani, 28 anni, medico di famiglia in formazione, aggredita quest’anno mentre copriva il turno di guardia all’ospedale di Gervasutta, Udine. Un familiare insoddisfatto ha cercato di strozzarla. Ma anche chi interloquisce con i pazienti al telefono non viene risparmiato. Insulti, offese e minacce sono all’ordine del giorno, specie per le donne. «L’aggressività è aumentata. Sono prevenuti. Molti uomini hanno nei nostri confronti un atteggiamento di dileggio e prepotenza». È anche successo che dopo aver scagliato minacce («t’aspetto fuori», «te corco de botte») l’utente abbia bussato infuriato direttamente alla sede della sala operativa. Urlando, strepitando, soltanto perché un certificato di malattia gli era stato negato. Eppure avrebbe potuto ottenerlo tranquillamente il giorno successivo in un ambulatorio diurno.
Il turno di notte
Le guardie mediche attaccano a lavorare alle 20 nei giorni feriali fino alle 8 della mattina seguente. La domenica dalle 10 alle 19. Sostituiscono i medici di famiglia quando i loro studi chiudono e la città cade in una sorta di mondo di mezzo sanitario. Se si ha un malore ci sono due alternative, tuffarsi nella bolgia del pronto soccorso (soluzione che molti respingono inorriditi) o, appunto, affidarsi agli angeli della notte. Ares nel 2022 ha assorbito 300 mila chiamate. Quando giocano Roma e Lazio però gli squilli si arrestano. Come al Cardarelli col Napoli al San Paolo.
Giulio in linea
Terminata la telefonata con Lisa, la dottoressa Prisco riprende la linea. Un signore di nome Giulio cerca soccorso per la madre 84enne, reduce da un ictus, che non è riuscita a deglutire un boccone e ha difficoltà a respirare. In sottofondo si sentono i familiari che si affannano attorno all’anziana donna. La guardia medica guida le manovre di disostruzione che però non danno esito. E allora suggerisce di chiamare il 118 e spetterà ai soccorritori valutare se sarà necessario il trasporto in ospedale. Più tardi Giulio verrà ricontattato per sapere se ha risolto il caso. Oppure sarà il 118, al termine dell’intervento, a dare un aggiornamento alla centrale.
Il marito depresso
Nel frattempo Rossella ha raccolto una nuova chiamata. Un uomo di 72 anni, altro fedelissimo. Di tanto in tanto litiga con la moglie, racconta lui, si sente solo e depresso e allora cerca rifugio presso «gli amici» della guardia medica, per avere conforto. Dice di aver perso la voglia di tutto, che la vita è finita, che nulla lo attrae. «Suvvia, lei è ancora giovane – lo rincuora la dottoressa – Esca a fare una passeggiata, l’aria è fresca, le farà bene. E quando vuole richiami, noi siamo qui tutta la notte... come sa».
L’arrivo degli psicologi
Dopo il Covid nell’organico sono stati inseriti gli psicologi. Perché il disagio interiore è cresciuto. Annamaria Roscioni dirige la centrale e gestisce anche il numero verde tuttora funzionante sulla pandemia: «Ci siamo resi conto del grande bisogno di sostegno della popolazione, non potevamo ignorarlo. A noi sono stati aggiunti 7 psicologi». Chi era ansioso è peggiorato, chi non nutriva autostima l’ha esaurita del tutto, chi soffriva di disturbi alimentari si è sentito ancora più ossessionato dal senso di inadeguatezza e ha estremizzato il rapporto col cibo. Chi non può permettersi di sedersi in uno studio di psicoterapia ha trovato qui un canale di sfogo.
La sofferenza di chi è solo
Le ore passano, il traffico si dirada, sulla strada solo il bagliore dei lampioni sull’asfalto bagnato. Nelle case le luci si spengono. Il buio e il silenzio accendono le paure di chi le ha covate tutto il giorno e non aspettava altro che comporre quel magico numero a otto cifre. Accanto a un finestrone c’è la postazione di Catia Ciancio, psicologa dell’emergenza che si alterna ad altri 6 colleghi al servizio di supporto. Ha appena riagganciato. Parlava con Anna, una delle anziane signore più assidue.
Le luci dell’alba
Chiamano nel cuore della notte o prima dell’alba perché è a quell’ora che si svegliano o si liberano dal torpore dell’insonnia. Sono sole, unica compagnia il coniuge malato. A volte non c’è nemmeno lui. Non c’è nessuno, né figli, né nipoti, né vicini di casa compassionevoli. Allora l’unico affetto resta una voce al di là del filo, la sola capace di filtrare l’angoscia. Basta l’ascolto, poche parole di conforto: «Non si preoccupi, tesoro, noi siamo qui, quando vuoi. Mi vuoi incontrare? No, questo non è possibile».
Drammi che restano dentro
Quando il turno finisce, Catia non riesce a svestirsi dei drammi penetrati in lei come le luci dell’alba. Eppure è una tosta. Pochi mesi fa c’era sempre lei, come inviata della Regione Lazio, accanto ai parenti delle donne uccise alla borgata Fidene, durante una riunione di condominio, da un pazzo che si è messo a sparare con la pistola sottratta al poligono di Tor di Quinto.