Corriere della Sera, 30 aprile 2023
Il ritorno di Jack Nicholson
L’hanno accolto come una star dell’Nba, come un giocatore mancato alla squadra per 18 mesi che torna in campo dopo un lungo infortunio. «Jack is back». A sorpresa, a 86 anni appena compiuti, uno dei mostri sacri di Hollywood è riapparso in pubblico dopo le tante voci girate sulla sua «reclusione» in casa, sulla salute calante che per 13 anni lo ha tenuto lontano dal set. Il cinema può anche essere un discorso chiuso per un attore da due Oscar e cinquanta film all’attivo, che probabilmente non riesce più a memorizzare le battute. Ma per la pallacanestro e per i suoi Los Angeles Lakers no, non c’è malattia che tenga.
E infatti Jack Nicholson è riapparso nel posto che da oltre mezzo secolo è il suo spazio pubblico, la sua piazza, il set delle sue vite dove ha portato amici, fidanzate, familiari. A bordo campo, nell’arena della squadra del cuore, a pochi metri dalla panchina degli ospiti, in quella che dal 1970 è «la postazione Nicholson».
È successo l’altra sera, in occasione di una partita cruciale dove i giallo-viola di LeBron James affrontavano i temibili Grizzlies di Memphis. Folla in delirio mentre sul grande schermo in segno di tributo sfilavano le immagini di Shining e di Batman, il ghigno irresistibile di un gigante. Lì sotto, seduto tra il figlio Ray e il nipote Duke, il vero Jack sembrava piccolo e appesantito, trasandato, con una giacca troppo grande, un po’ spento. Ma presente: si è alzato durante il riscaldamento dei giocatori prima della partita, quando LeBron si è avvicinato per salutarlo con affetto. All’intervallo si è mangiato le patatine. Ha sorriso spesso. Il match è andato per il verso giusto: i Lakers dominando hanno eliminato i Grizzlies dalla corsa al titolo.
Jack ne ha viste tante, dalla sua postazione: ha cominciato a bazzicare il campo alla fine degli anni ‘60, ai tempi di Wilt Chamberlain. Ha tifato in periodi bui e si è goduto gli anni d’oro di Kareem Abdul-Jabbar e Magic Johnson, spesso anche in trasferta. È diventato amico di Kobe Bryant e ha pianto quando è morto su quel maledetto elicottero. Era al Boston Garden ai tempi della vittoriosa finale dei Lakers contro i Celtics di Larry Bird, anno 1985: ai tifosi avversari che lo sfottevano lui mostrò il sedere tirandosi giù i pantaloni, con il «mooning» già reso celebre da Marlon Brando.
Raramente ha parlato in pubblico di basket, considerandola una passione privata. Vent’anni fa, quando il suo posto a bordo campo già costava duemila dollari a partita, raccontò in un’intervista che di quel mondo gli piaceva l’imprevedibilità: «Ogni anno è differente, ci sono sempre nuove storie». Ogni sera: «Vai a vederli e non sai mai come sarà la fine». Un copione di sorprese. Abdul-Jabbar, il grande centrale dei Lakers, raccontò di averlo conosciuto nel 1975: «La gente non sa che Jack ha giocato playmaker alle scuole superiori vicino ad Asbury Park, New Jersey. Era l’unica cosa che amava e per cui viveva: il basket».
Nell’anno in cui incontrava Kareem, Nicholson vinceva il primo Oscar per Qualcuno volò sul nido del cuculo. Meravigliosa la scena in cui Jack fa appassionare a canestro gli amici «picchiatelli» contro gli operatori dell’ospedale psichiatrico. «Grande Capo, hai mai giocato a questo gioco? Dai, vieni che ti faccio vedere. È un vecchio gioco indiano. Si chiama: “Metti la palla nel buco”». Ecco, il basket è semplicemente questo. Bisogna almeno provarci. È bello che il playmaker Jack, non importa quanto picchiatello, sia tornato in campo ancora una volta.