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 2023  maggio 01 Lunedì calendario

«Personalità modesta, linguaggio povero, lentezza di intuizione».«Fu il giudizio dei professori alla maturità

«Personalità modesta, linguaggio povero, lentezza di intuizione».
«Fu il giudizio dei professori alla maturità. Dimostra come spesso la scuola inibisca, non riesca a tirare fuori il meglio di te. Ma non mi sono abbattuto. “Ve la faccio vedere io” fu la mia prima reazione. Il mio motore sono sempre state le stroncature, le critiche negative, anche se mi feriscono enormemente. Per me è sempre così, le cose migliori le ho sempre fatte quando sono sotto tiro».
Enrico Ruggeri, gli inizi punk con i Decibel, 11 Festival di Sanremo (due vittorie con Si può dare di più e Mistero), autore per se stesso e per altri, svariate hit («ci sono 13 canzoni che nei miei concerti non posso non fare»), 32 album, oltre 4 milioni di dischi venduti, più di 2.000 concerti. Acuto. Abrasivo. Controcorrente, a volte troppo.
Ai tempi del liceo, il Berchet di Milano, suonava negli Champagne Molotov, a dimostrazione che i «Comunisti col Rolex» non hanno inventato niente...
«Il nome dichiarava l’intento: siamo incazzati ma abbiamo stile».
Erano gli anni Settanta, comunisti contro fascisti.
«Ricordo una volta in tram, avevo un album di David Bowie, venni fermato da alcuni “compagni” che mi chiesero: perché ascolti quel frocio qualunquista? In quegli anni la sinistra era omofoba, oggi non lo ricorda più nessuno, ma era così».
Vede che è di destra.
«È una semplificazione frutto di un’analisi superficiale. Io vengo da un mondo nel quale c’era una dittatura, al liceo dominavano i comunisti, le Br erano i compagni che sbagliavano, stavo in una scuola dove assemblea e professori applaudirono l’uccisione di Calabresi, Gad Lerner e Pisapia erano i più equilibrati. Le menti libere tendono a essere refrattarie alle imposizioni e io da allora mi sono battuto contro quella dittatura, pur condividendo certe battaglie considerate di sinistra».
Tipo?
«Nelle mie canzoni ho parlato di trans – nel 1990, quando non interessava a nessuno – di profughi, di carceri... Mi sento al di sopra delle etichette. Decido di caso in caso. Ad esempio preferirei che l’Italia non fosse nella Nato. È una cosa di sinistra? Non so, ma io lo penso».
Come le pare Elly Schlein?
«Credevo potesse favorire Renzi e Calenda... È più facile stare all’opposizione che governare, ma penso che ci siano temi che interessano di più di altri: ad esempio secondo me la casalinga di Voghera non ha così a cuore i diritti Lgbt, mentre è interessata all’occupazione e alle pensioni. E il mio non è un giudizio di merito, ma strategico».
Alla fine tra fascisti e comunisti ha scelto la musica.
«È stata la mia salvezza da quel mondo: avevo la mia micro-popolarità al liceo perché ero quello strano che suonava».
Andava in giro con un pitone per fare colpo...
«Appartengo a una generazione in cui dovevi essere diverso per rimorchiare, mentre oggi gli adolescenti sono tutti uguali; io ogni cento metri vedo uno che scambio per mio figlio. Allora invece il pensiero era diverso: devo fare qualcosa che non fa nessuno. Il pitone lo aveva Alice Cooper, Alex di Arancia Meccanica... E poi funzionava».
La Milano di ieri e di oggi, i giovani analogici e quelli digitali, che differenze vede?
«Una è l’omologazione di cui parlavo prima. L’altra è che il denaro oggi è diventato una qualità morale. Io vengo da una generazione che qualche libro l’ha letto. Oggi invece la cultura sembra rientrare nell’alveo della noia, si ride al solo nominarla. Io mi incazzo quando mio figlio mi chiede quanto guadagno. Vengo da un mondo che pensava fosse un atto di maleducazione chiedere quanto uno guadagna».
Diceva che la musica l’ha salvata. I suoi genitori l’hanno appoggiata?
«No, ma neanche ostacolato. Mia madre è andata avanti a pagarmi le tasse dell’università fino all’87. Quando ho vinto Sanremo con Si può dare di più ha capito che non avrei finito Giurisprudenza».
E suo papà?
«È sempre stato assente, è morto di depressione. Non ha lavorato un solo giorno della sua vita e ha dilapidato un patrimonio di generazioni. Ma lo ringrazio perché io sono cresciuto con il disprezzo del denaro tipico dei ricchi e provo la rabbia che anima i poveri. Intendiamoci, non ero povero, appartenevo alla piccola borghesia, ma avevo zie super snob, respiravo il gusto del bello, l’aria da signori pur non essendolo. Una condizione ideale: se fossi nato ricco avrei fatto di meno, ma se fossi stato proletario sarei stato meno elegante».
Ha appena pubblicato il suo nuovo brano, «Dimentico», in cui parla in prima persona dell’Alzheimer.
«È una canzone nata non perché abbia avuto casi in famiglia, ma perché ho preso due schiaffi nel giro di pochi giorni. Prima ho conosciuto La Meridiana, una cooperativa che gestisce un centro dove ho passato un po’ di tempo con persone malate, poi ho visto The Father con Antony Hopkins. E sono rimasto molto colpito. È un tema stimolante perché ha a che fare con qualcosa che si rompe in quel punto indefinito che è anima e cervello, cuore e percezione: siamo impreparati, tanti si vergognano. Dal punto di vista artistico per me sono interessanti quei temi dove l’oggettività non esiste e anche la conoscenza è aleatoria».
Come l’amore: lei ha scritto «Quello che le donne non dicono», un successo di Fiorella Mannoia: come era nata?
«Come frase a effetto potrei dire che ci sono uomini che parlano di donne e uomini che parlano con le donne. È nata dall’aver ascoltato centinaia di donne, anche per motivi abietti; quando cerchi di rimorchiare e lei si lamenta del marito mentre tu pensi: partiamo bene. L’uomo in fondo è come il politico in campagna elettorale: quando corteggia una donna le prospetta un futuro bellissimo, poi, ottenuto l’incarico, non è all’altezza».
Centinaia di donne?
«Quando diventi famoso le opportunità si moltiplicano in modo esponenziale. Ho passato stagioni in cui facevo 150 concerti all’anno e se andava male andavo via con una ragazza per sera. Se andava male...».