Corriere della Sera, 1 maggio 2023
I Ricordi di Guicciardini
I Ricordi di Francesco Guicciardini sono il frutto di un tormento durato quasi vent’anni, dal 1512 al 1530. Per di più, l’autore non volle neppure pubblicarli in vita e la prima edizione uscì nel 1576 a Parigi, ben trentasei anni dopo la sua morte. Persino il titolo non è strettamente un titolo d’autore, ma si deve agli editori moderni, che lo trassero dalle parole dello stesso Guicciardini. Il termine «definisce un altro spazio, teorico e formale, rispetto a definizioni come consigli, avvertimenti o massime»: è quanto scrive Matteo Palumbo, cui si deve l’edizione commentata dei Ricordi, uscita da Einaudi nella prestigiosa Nuova raccolta di classici italiani annotati, la collana fondata da Santorre Debenedetti nel 1939, diretta poi da Gianfranco Contini, infine da Cesare Segre e ora affidata alla solida competenza di Mauro Bersani.
Come annota Palumbo, è il «ricordo» numero 9 a darci insieme il senso mutevole di quel termine assurto a titolo e le istruzioni per l’uso del libro: «Uno spazio preciso, in cui la soggettività di colui che scrive lascia il segno delle esperienze, delle emozioni e di ragionamenti che hanno riempito la sua esistenza». Lo stesso Palumbo evoca Montaigne e il Leopardi dei Pensieri. Esperienza è un concetto-chiave che scoraggia la diretta e prescrittiva traduzione di una «massima» nella pratica quotidiana, suggerendo piuttosto un «procedimento per assaggi, relativo a singoli temi», da comprendere e preservare nella memoria in prospettiva della «costruzione di una sapienza».
È il modello di una scrittura-esperienza (morale e civile) evocato da Gramsci per progettare i suoi Quaderni. Gennaro Sasso ha parlato dei Ricordi come di una «vivente discrezione» e si sa quanto, per Guicciardini, conti quel concetto-guida: intesa come attenzione al dettaglio e al contesto, la «discrezione» permette di cogliere le differenze anche minime e le opportunità in qualunque settore. È una prospettica che riduce, per quanto possibile, i margini di arbitrio e di casualità che caratterizzano le cose umane, escludendo che le circostanze variabili si possano fissare una volta per tutte entro una misura assoluta e definitiva. Niente di più antiideologico. «È un grande errore – si legge nel ricordo 6 – parlare delle cose del mondo indistinctamente et absolutamente...». Il commento di Palumbo ai 221 «ricordi» che compongono il libro è lucido e piano, rispettoso del lettore non specialista, ricco di riferimenti interni e di implicazioni anche rispetto alle altre opere di Guicciardini.
Si trova nel ricordo 6, per Palumbo, il fondamento della riflessione guicciardiniana. Ma è al 28, attacco violento contro il comportamento ipocrita dei preti, che bisogna guardare per cogliere il famoso «particulare mio»: e cioè quel nodo che, interpretato come tornaconto personale, ha inciso nella scarsa stima di cui godette Guicciardini presso i posteri. Il suo accusatore più tenace fu Francesco De Sanctis, che gli rimproverò una morale cinica avversa all’interesse comune e tesa al vantaggio individuale: ne viene fuori, per il letterato ottocentesco, un Guic-ciardini simbolo della decadenza etico-politica che nei Ricordi incarna «la corruttela italiana codificata e innalzata a regola della vita».
Contro questo pregiudizio persistente fino alla metà del secolo scorso, Palumbo individua piuttosto i fili che collegano Guicciardini con un modo più moderno di affrontare la politica. E commentando proprio il ricordo 28 precisa come quella parola necessariamente polisemica andrebbe letta entro una costellazione di altri termini, a cominciare appunto da «discrezione», «onore», «utile», ovvero tutto ciò che richiama i «limiti delle azioni personali», i confini entro cui gli esseri umani si trovano a interpretare un ruolo. Vita come teatro peraltro descritta nel ricordo 216, ed è suggestivo riscontrare che gli stessi Ricordi siano definiti da Palumbo, nel commento al 51, un «teatro verbale» in cui si mette in scena un «perpetuo travaglio». Tant’è vero che Corrado Bologna parlerà di «libro dell’inquietudine», probabilmente azzardando un richiamo a Pessoa.
Tenendo sempre presenti gli studi più recenti su Guicciardini, sia sul piano esegetico sia sul piano filologico, Palumbo evoca l’importanza di Mario Fubini e di Raffaele Spongano. A questi si devono, nel mezzo del Novecento, gli scavi più innovativi sull’elaborazione dei Ricordi. Una gestazione che, come si accennava, parte dai primi «ghiribizzi» contenuti in due quaderni autografi vergati in Spagna tra marzo e settembre 1512, approda a una redazione A completata prima del 1525 e poi a una B del 1528 per arrivare alla «tensione teorica» dell’ultima serie, risalente al 1530 (redazione C). Se le prime tre si possono ritenere in rapporto genetico progressivo, l’ultima è una stesura autonoma, realizzata ex novo, senza il confronto con le precedenti redazioni. Ed è ovvio, dunque, che Palumbo proponga a testo la redazione C, mentre in appendice viene testimoniata la B, che ingloba le precedenti. Del travaglio testuale ci informa, in una nota filologica, Giovanni Palumbo, figlio del curatore.
Genesi tormentata, dunque, di una raccolta elastica e frammentaria che muta natura e forma nel corso di un ventennio, fermo restando che si sviluppa probabilmente come scrittura privata: «libro segreto», raccolta potenzialmente infinita di appunti pratici e riflessioni in stretta relazione con la stesura delle altre opere e soprattutto in coincidenza e simbiosi con gli eventi biografici, specie quelli meno felici. Libro della crisi, anzi delle crisi, che scandisce i momenti delicati della vicenda privata e insieme fatalmente pubblica di Guicciardini, come se in quelle fasi l’avvocato-filosofo dalla carriera folgorante, via via ambasciatore di Firenze, commissario dell’esercito pontificio, presidente papale della Romagna, sentisse il bisogno di affidare la sua voce di uomo, più intima e amara, ai «ricordi». Crisi come «atto finale della “ruina” iniziata nel 1494», avverte Palumbo alludendo all’anno del tragico allontanamento dei Medici e della instaurazione della Repubblica fiorentina. Altro anno terribile è il 1527, con il sacco di Roma da parte delle truppe di Carlo V, il ritorno della Repubblica a Firenze, l’estromissione di Guicciardini dal governo e il suo conseguente ritiro nella tenuta di Finocchieto. Anno che Guicciardini descriverà come «pieno di atrocissimi e già per più secoli non uditi accidenti: mutazione di stati, cattività di principi, sacchi spaventosissimi di città, carestia grande di vettovaglie, peste quasi per tutta Italia grandissima; pieno ogni cosa di morte di fuga e di rapine».
Non deve stupire, dunque, che l’ultima redazione dei Ricordi coincida con la primavera 1530, quando Guicciardini arriva a Roma gravato da una condanna di ribellione e da una confisca dei beni e, come scrive Palumbo, «il momento di fare i conti con la storia prossima sembra arrivato a un passaggio particolarmente aspro». È l’esperienza vissuta che sta alla base di un altro nodo critico guicciardiniano: quello che riguarda la «grandissima potestà della fortuna» nelle cose umane. Bellissime le poche righe autobiografiche che sigillano il ricordo 85: «Con difficultà ho havuto le cose, quando l’ho cercate; le medesime, non le cercando, mi sono corse drieto». Ma tra le considerazioni sui massimi sistemi, si trovano perle sulle curiose dinamiche dei rapporti familiari, sull’esito imprevedibile delle guerre, sulla credibilità di certe notizie, sulla vanità e sulla timidezza, sul saper conversare. Libro tutto da leggere e rileggere, pieno di risentimento, di fermezza, di sbalzi d’umore e di saggezza, di lampi di lucidità visionaria sul destino degli uomini. Un pensiero di crisi «che nasce dalle ceneri di un mondo e saggia modi possibili di pensare l’esistenza».