Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2023  aprile 30 Domenica calendario

Sulle "Opere complete di Learco Pignagnoli"

Questo è un libro molto simpatico e nello stesso tempo pieno di tormenti. È una convivenza che può sembrare strana e contraddittoria ma lo è solo in apparenza. Del resto è dichiarata in modo esplicito in uno dei testi più significativi: «Se non c’è niente da ridere vuol dire che non c’è niente di tragico, e se non c’è niente di tragico, che valore vuoi che abbia» (opera n. 161).
La prima edizione delle Opere complete di Learco Pignagnoli uscì nel 2006 (Aliberti). Questa seconda edizione aggiunge a quei primi testi un consistente gruppo di Altre opere complete, per un totale complessivo di 425 «opere». Ma di che testi e di che libro si tratta? Nel 2007 ne avevo inserite alcune nell’antologia Favole, apologhi e bestiari (Rizzoli Bur), in cui ricostruivo la tradizione esopica della letteratura italiana, dagli «apologhi» di Leon Battista Alberti e Leonardo da Vinci alle «favole» di Carlo Emilio Gadda, i «raccontini» di Umberto Saba, i «fiori giapponesi» di Raffaele La Capria, le «galline pensierose» di Luigi Malerba. Una solida, sagace e illuminante serie di testi in prosa collocabile nel vasto territorio delle forme brevi e direi “brevissime”. Pungenti, lapidarie, satiriche: poche parole e righe per fissare un concetto, fare un ritratto, raccontare una storia. Con la caratteristica tipica di questa specie di scritti per cui ogni testo è “un’opera” a sé stante e nello stesso tempo tessera di un mosaico; per cui leggiamo il singolo pezzo in modo autonomo e pure quale parte di un ampio insieme (come dovrebbe essere in realtà per ogni libro di poesie, racconti, favole, aforismi, epigrammi).
In quest’ottica le Opere complete di Learco Pignagnoli sono tra i più importanti esempi recenti di questo multiforme genere letterario e costituiscono già, a propria volta, un autorevole modello. Ne è inventore Daniele Benati, classe 1953, autore di rilevanti romanzi e volumi di racconti (Silenzio in Emilia, 1997; Cani dell’inferno, 2004; Un altro che non ero io, 2007) e di altrettanto ragguardevoli traduzioni di Joyce, Beckett, Flann O’Brien e Ring Lardner. Nel 2006 ha ideato e curato con Gianni Celati la bellissima antologia Storie di solitari americani.
Le «opere di Learco Pignagnoli» possono essere di una o due righe ed estendersi eventualmente al limite della pagina. Affermazioni, paradossi, velenosi epigrammi in prosa, profili surreali, amari autoritratti, laconiche novelle e short stories, saggi in miniatura, invettive alfieriane, rasoiate polemiche e canzonatorie, incisive espressioni letterarie, gastronomiche e sportive. Da autentico «ospite ingrato».
Ecco alcune «opere»: «Per tutta la vita Tonino era stato a chiedersi come aveva fatto a essere l’ottavo di sette figli» (op. 10); «Tranne me e te, tutto il mondo è pieno di gente strana. E poi anche te sei un po’ strano» (op. 13); «Era così felice di aver smesso di bere che, appena giunto a casa, ha stappato una bottiglia e l’ha bevuta d’un fiato» (op. 30); «Bottazzi, gli ho scritto che volevo ammazzarmi, e m’ha risposto solo dopo due mesi» (op. 90); «Quel poeta di Roma. Ero sincero quando ho detto che era un grande poeta. Solo che scherzavo quando ho detto che ero sincero» (op. 261); «Diranno: Ma tu ci sembri un tantino sarcastico. Altroché, dirò. Il sarcasmo viene prodotto dall’unica sostanza chimica capace di tenere in vita una persona» (op. 283); «Meglio all’inferno col proprio carattere che in paradiso con quello di qualcun altro» (op. 336); «La verità da scoprire a questo mondo era una sola e cioè che con l’amore non si capisce niente, con l’odio si capisce tutto» (op. 396); «Pioveva, e così nessuno si è accorto che piangevo» (op. 387).
Insegne di una solitudine e di una distanza scaturite dalla convinzione che «Quelli che pensano, spesso pensano in maniera diversa» (op. 331). Sulle tracce di Filippo Ottonieri e di quel mondo «lega di birbanti contro gli uomini da bene, e di vili contro i generosi» stigmatizzato per violenta «esperienza» da Leopardi nel primo dei Pensieri.
Le «opere di Pignagnoli» sono esercizi di conoscenza della realtà e del dolore diabolico che essa porta brutalmente con sé. Lo spessore del pensiero si coniuga con un’ironia penetrante e una comicità beffarda e infernale, dando vita a una sapiente orchestrazione stilistica di varianti e ripetizioni, a un libro perentorio e provocatoriamente dialogico.
Pignagnoli potrebbe essere la maschera spinosa di un Bartleby che ha rotto il muro di ostinato silenzio e ha deciso di sfogarsi.