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 2023  aprile 30 Domenica calendario

Come fare poesia

Voi fate Poesia? Sì…? E volete anche scrivere qualche buona poesia? Come? Cercate l’analogia, e cercate la forma in cui renderla. Di forma tratteranno principalmente queste pagine: di architetture, di strutture, di configurazioni sonore, piccole e grandi. Solo nella forma la Poesia diventa poesia, componimento; e composizione, e ricomposizione: cioè, raccordo di lontananze che, senza avvicinarsi, si lasciano contemplare in un colpo d’occhio, rimettendo il poeta in comunicazione con una pur provvisoria o illusoria (o forse davvero vera) totalità.
Occorre molto lavoro, e neanche allora è certo che ci si riesca. A ogni modo, ammesso che la Musa sia con noi, la Poesia diventa poesia con l’applicazione.
Occorre leggere il più possibile, frequentare i poeti migliori, quelli che hanno la Poesia e sanno scrivere poesie: gli antichi, i moderni, i modernissimi, gli italiani e gli stranieri. Occorre farsi una biblioteca di volumi di poesia, dalla quale non dovranno mancare i maestri e le maestre: Omero, Saffo, Catullo, Virgilio, Ovidio, Dante, Petrarca, Ariosto, Vittoria Colonna, Tasso, Goethe, Wordsworth, Leopardi, Baudelaire, Rimbaud, Dickinson, Mallarmé, Pascoli, Kavafis, Montale, Ungaretti, Zanzotto, Szymborska…
Occorre farsi una grande cultura poetica, riconoscere la diversità e la specificità delle esperienze, capire che per poesia – intesa come scrittura in versi – nel corso dei secoli si sono indicate le più varie pratiche linguistiche.
E occorre leggere ad alta voce. Solo nell’esecuzione orale una poesia ha il suo compimento: la forma chiede di essere pronunciata. Crediamo di vederla intera, la forma, quando ci appare sulla pagina. Non è così. La forma sarà intera solo nell’aria, come la musica, come un tempio greco: solo lì si esprime pienamente come armonia, come sistema di rapporti, come alternanza di vuoti e pieni.
La “vocalizzazione” della poesia – vuoi attraverso la lettura vuoi attraverso la recitazione – non è ancora diventata disciplina curriculare in nessuna scuola, né in Italia né all’estero. I professori stessi ne sono quasi sempre privi, e i ministeri della Pubblica istruzione permettono che milioni di studenti, piccoli e grandi, procedano di grado in grado fino al diploma senza divenirne mai neppure consapevoli. E Dante, Petrarca, Ariosto, Colonna, Stampa, Tasso, Leopardi, Ungaretti, Montale, Rosselli e altri grandissimi e grandissime restano muti, solo ipotesi; geni nella lampada, dei quali si finisce tutt’al più per acquisire qualche nozione biografica e schizzare repellenti identikit attraverso quel viziaccio che va sotto il nome di parafrasi.
Dire poesia è un rito, come ha ben dimostrato Mariangela Gualtieri, e a questo occorre essere iniziati. Nessuno è già pronto, per quanto lo pretenda. Le parole scritte stanno per un “corpo” che non corrisponde semplicemente alla successione dei segni né al senso razionale di questi. Non si tratta di esprimere un sentimento o un’emozione, come fanno certi attori. Non si tratta di interpretare il cosiddetto senso o di articolare un messaggio comprensibile: si tratta di arrivare al corpo nascosto, che vivrà soltanto quando l’avremo rivelato e animato per mezzo del nostro respiro.
Non esistono istituzioni, scuole o insegnanti, che istruiscano all’arte della poesia. Né ci sarà mai nessuno che possa dire al poeta: sei arrivato a questo punto; ora devi arrivare a quest’altro.
Il poeta è un autodidatta. Il che non significa che la sua formazione debba essere spontanea o casuale. Si diventa poeti, così come si diventa violinisti o pittori o danzatori, con lo studio assiduo e con la pratica; e non perché manchino scuole o accademie per la formazione del poeta, lo studio e la pratica devono mancare. La poesia è un’arte e come tale è piena di regole, di vincoli, di segreti che vanno conosciuti e capiti.
Per quanto si eserciti, per quanto bravo diventi, il poeta non riuscirà mai a liberarsi completamente della sensazione di provarci ogni volta per la prima volta, di essere sempre e comunque alle prime armi. Come ha scritto Wis?awa Szymborska: «anche i poeti con un grande bagaglio artistico non sono “abituati” a scrivere poesie. A meno che non abbiano cessato di essere poeti».
Inseparabile da questo mestiere è una perdurante condizione di dilettantismo. E, nella realtà dei fatti, tutti i poeti, anche i migliori (specie in Italia), sono dilettanti, perché campano d’altro. Alla loro arte si dedicano nei ritagli di tempo, la notte, o mentre si recano al lavoro, in treno, sull’autobus, oppure togliendo spazio al lavoro remunerato.
Molti, però, scrivono poesie, o almeno pretendono di scriverne, senza alcuna arte. Perché?
Il punto è che la voglia di scrivere una poesia sorge direttamente dalla pratica quotidiana del linguaggio. Né scrivere richiede granché: basta la lingua che già parliamo, e poco più, un foglio, una penna o un attrezzo digitale (neanche quelli, se uno ha buona memoria). Basta? No, non basta.
Serve prima di tutto quello che Dante chiama all’inizio del Convivio «amore de la propria loquela». E “amore” significa studio, dedizione, curiosità. Significa attenzione.
Delle parole si vuole conoscere tutto: il passato, il presente, il futuro. Per il poeta una parola non arriva mai da sola, ma con tutta la famiglia: antenati, parenti prossimi e lontani, amici, discendenze. Di una parola vuole apprendere tutti i significati correnti, quelli perduti, quelli ancora inespressi, l’etimologia, i sinonimi, le associazioni comuni e meno comuni; esplorare i suoni, le varianti obsolete, tutte le rime possibili, le traduzioni in dialetti o altre lingue (il poeta dovrebbe possederne almeno una, oltre ad avere basilari nozioni di latino e di greco). Virginia Woolf, in un intervento radiofonico (ne restano quattro splendidi minuti, conservati nell’archivio sonoro della British Library, l’unica registrazione superstite della sua voce), parlando della sua affezione per le parole inglesi, disse che le parole arrivano a noi con una lunga storia: «they contracted strange marriages in the past» (hanno contratto strani matrimoni nel passato). Cioè, noi non siamo i primi a usarle; sono già state di altri. E di questo dobbiamo tenere conto. La nostra creatività si esprimerà nel collocarle all’interno di altre parentele, in frasi dove non erano ancora finite, in nuove case.
Il poeta dedica ogni momento della sua giornata alla conoscenza della lingua. Legge moltissimo, regolarmente: legge le poesie degli altri, antichi e moderni, ma anche i romanzi, i saggisti, qualche giornale. Ascolta moltissimo: la gente per la strada, nei treni; i bambini, i vecchi, gli amici. Sa esattamente come parlano tutti coloro che conosce.